Esistono altri Paesi oltre l’Italia, nel ricco e democratico Occidente, nei quali si possa sequestrare da più di sei mesi tutti i documenti, cartacei o informatici, compresi documenti familiari e relativi a questioni sanitarie, a un ricercatore accusandolo di voler favorire con notizie riservate due persone implicate nel rapimento di Aldo Moro e per questa vicenda già condannate in via definitiva all’ergastolo? Probabilmente no. Probabilmente questa incredibile situazione kafkiana fa parte di quella specificità tutta italiana quando in gioco ci sono la magistratura e il buco nero degli anni Settanta e della lotta armata.

DELLA INCREDIBILE vicenda che vede coinvolto Paolo Persichetti ci siamo già occupati alcuni mesi fa, quando tutto l’archivio dello studioso fu sequestrato. Ce ne siamo occupati con poche altre di quelle testate che tentano di ragionare intorno all’operato della magistratura senza un acritico sostegno. Ora dobbiamo ritornare sull’argomento perché la vicenda giudiziaria non è ancora finita. Teoricamente oggi il gip avrebbe dovuto pronunciarsi sulla legittimità del sequestro degli archivi di Persichetti, ma con un colpo di scena ha già accolto la richiesta di incidente probatorio rigettando quindi la richiesta della difesa di dissequestro dell’archivio, senza attendere l’udienza e quindi senza garantire alla difesa le sue prerogative.

Di che cosa è accusato e chi è Paolo Persichetti? La risposta a questa domanda contiene già alcuni elementi fondamentali per comprendere la vicenda che altrimenti sembrerebbe uscita da una pièce del teatro dell’assurdo. Persichetti fu un militante della lotta armata che una volta scontata la sua condanna invece di scomparire nell’oblio pretende di studiare come storico quelle vicende, oltretutto senza neanche far parte dell’accademia.

Per portare avanti i suoi studi, Persichetti legge e studia le carte processuali e quindi non può non confermare che della vicenda del rapimento e dell’uccisione di Aldo Moro si sa tutto; che quel mattino in via Fani non c’erano uomini della mafia o della ndrangheta, agenti israeliani o della Ddr. Legge e studia le carte processuali e interroga i membri del comando delle Brigate rosse, quelli disponibili a parlare, per comprendere, anche da un punto di vista tecnico e operativo, come un’azione talmente complessa e clamorosa fu gestita.

Ma gli studi di Persichetti non passano inosservati. Le sue mail, con le quali pone domande agli ex brigatisti sono intercettate; addirittura si analizza con certosina pazienza lo scarto fra le ipotesi iniziali e i testi finali delle pubblicazioni. Ed ecco la geniale intuizione della Procura: siamo di fronte a una lunga serie di reati che partendo dalla divulgazione di materiale riservato giungono fino alla fantasmatica accusa di far parte di una banda terrorista, costituita per il momento dal solo Persichetti. Caduta l’accusa più ridicola, quella della banda armata, con un classico nei comportamenti di una buona parte della magistratura inquirente italiana, si cambiano le accuse in corso d’opera e ora la divulgazione di materiale riservato avrebbe come scopo quello di informare due dei partecipanti al rapimento di Moro per possibili «responsabilità penali per fatti di reato ancora non completamente chiariti». Peccato che i due “favoriti” dalla “divulgazione” sarebbero Alvaro Lojacono e Alessio Casimirri che per il rapimento di Moro e l’uccisione dei cinque uomini della sua scorta sono già stati condannati in via definitiva all’ergastolo.

IL TUTTO È GROTTESCO e inaccettabile. Resta, a fronte di questa incredibile situazione, anche un’altra domanda: che cosa sarebbe successo se gli archivi sequestrati fossero appartenuti a uno dei tanti professori universitari che si sono occupati del rapimento e dell’uccisione di Moro?