C’è voluto l’invito di un ammiraglio della Marina italiana rivolto a Renzo Piano e al figlio Carlo per un lungo periplo intorno al mondo con una nave dell’Istituto oceanografico militare, il Magnaghi, per far nascere un racconto così ragionato e intimo sul lavoro dell’architetto genovese. Un racconto a due voci scritto dal figlio, giornalista, dove s’intercala in prima persona la narrazione del padre, il «Geometra», il «Vecchio» o l’«Esploratore», come lo soprannomina Carlo.
Iniziamo col dire che dalla lettura di Atlantide. Viaggio alla ricerca della bellezza (Feltrinelli, collana Fuochi, pp. 295, euro 19) emerge un profilo di Renzo Piano differente rispetto a quello restituitoci da interviste, articoli e saggi precedenti.

NEL DIALOGO con il figlio l’architetto genovese mostra di sé un aspetto profondamente riflessivo e critico di alcune sue architetture che di nuovo incontra e illustra lungo la rotta che la motonave compie circumnavigando il globo terrestre. Semmai si dovesse in futuro indicare una fonte alla quale fare riferimento per ricevere una serie di utili elementi in più sulla sua architettura, oltre ad aneddoti e pensieri, in parte già noti della sua lunga e fortunata carriera, non si potrà prescindere da questo libro scritto a quattro mani.
La sua novità è sottintesa nel titolo che rimanda al «folle desiderio» della scoperta di Atlantide: sinonimo di bellezza e di perfezione. Piano è fin dall’inizio della sua attività di «costruttore» (come ama definirsi, in continuità con l’attività paterna) che la insegue con tenacia. La bellezza, rappresentazione della città attraverso l’architettura, è per lui, come per qualsiasi altro architetto, simile alla mitica isola cantata da Platone nel Timeo e nel Crizia. Va anch’essa scoperta con pazienza e «testardamente».
Per scovarla ha battuto i cinque continenti. Ne elenca Carlo i luoghi: «nel mezzo del Pacifico, sulle rive del Tamigi e della Senna, nel Golden Gate Park di San Francisco, sulle isole del Giappone. Ostinatamente nella Berlino ancora sfigurata dalle cicatrici del muro, ad Atene, nella New York ferita dall’attentato alle Torri Gemelle».
In molte occasioni Piano ha dato prova di averla scorta e posseduta. Di cosa poi la bellezza dell’architettura sia composta lo spiega lui stesso osservando innanzitutto l’indissolubile legame che questa deve avere con la cultura e la storia, a iniziare da quella delle civiltà antiche: dai principi vitruviani di solidità e utilità al valore etico del bello dei greci. Tuttavia l’eredità di una grande tradizione può essere «paralizzante»: «il passato sarà anche un buon rifugio, ma il futuro è l’unico posto dove possiamo andare».

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CI SONO STATI ALTRI CASI, invece, nei quali la bellezza l’ha vista in lontananza e ne è rimasto deluso. Le ragioni sono gli errori commessi: «quando te ne accorgi è troppo tardi». L’elenco non è poi così lungo e la sua sincerità contribuisce a ridimensionare l’eccesso di lusinghe di critici sempre entusiasti per tutto quello che esce dallo studio di Punta Nave o del Marais. Non è da escludere che nei modi con i quali commenta le sue architetture ci sia una certa dose di sprezzatura, ma è indubbio che le sue perplessità donano un tratto di umanità in più alla figura dell’architetto genovese.
Con semplicità, infatti, riconosce che il progetto di Postdamer Platz a Berlino è «troppo monotono», «scatolare e massiccio» e senza «articolazione» il County Museum (Lacma) di Los Angeles, e così a Lione, la Cité Internationale, «appoggia a terra pesantemente», mentre a Parigi l’Atelier Brancusi, accanto a Beaubourg, «manca di tensione». Purtroppo «in architettura quando è fatta è fatta».

CONVIENE GUARDARE a ciò che «ancora devi fare e quello che non hai nemmeno ancora cominciato a pensare». Carlo, nel suo discorrere di mare, oceani e natura, di venti, navigazione e tempi di ogni traversata – dal Pacifico, all’Atlantico fino al Mare Nostrum – commenta e incalza con arguzia il genitore contribuendo a quella discussione critica che solo un figlio adulto può permettersi. Il «Costruttore» gradirebbe che questo confronto l’avessero con lui anche i suoi giovani collaboratori e in una lettera a loro indirizzata li invita a non avere «paura di osare»: infatti «le idee vengono perché a un certo punto si prende il coraggio di averle».
La chiosa di Carlo non si fa attendere. Secondo un manuale di psicologia del colore ci spiega che il verde scelto per scrivere a loro la missiva denota qualcuno che «si mette su un piedistallo e ha la tendenza a far la morale agli altri». Come la mettiamo, chiede divertito al lettore, con questa singolare coincidenza?
In un altro passaggio, lì dove Piano riflette su come ha saputo interpretare con i suoi edifici il cambiamento, Carlo si fa coscienza critica notando che il «tetto verde» posto a copertura del Museo di Scienze e Storia Naturale di San Francisco, è un’invenzione divenuta di «gran moda» un po’ in tutto il mondo e non è poi così originale visto che «i contadini hanno sempre saputo che la terra è un buon isolante». Nel prossimo futuro saranno incommensurabili i problemi ambientali del pianeta ai quali gli architetti dovranno dare risposta. È evidente che la forza di un «messaggio» positivo, qual è il museo della California Academy, contribuirà a sensibilizzare tutti per fare in modo che si riducano al minimo i consumi e gli sprechi.

PERMANE, comunque, il fatto che l’applicazione di tecnologie, di nuovi materiali e di processi produttivi ad alto valore di innovazione e di sostenibilità rimarranno splendidi exempla se non si consolideranno in pratiche diffuse e non resteranno solo appannaggio di un élite del mondo. Il tema è ben conosciuto da Piano. Riguarda il «fare progetto con gli abitanti» come gli accadde a Otranto circa quarant’anni fa con i «laboratori di quartiere» su incarico dell’Unesco.
Nella punta della Puglia divenne un «architetto condotto»: colui che «trova soluzioni per realizzare operazioni di restauro senza allontanare da casa gli abitanti». L’esperimento di Otranto si colloca cronologicamente nella fase post-Beaubourg: l’«esperienza totalizzante» del centro culturale parigino concepito insieme ai suoi amici Richard Rogers e Peter Rice. Confessa il «Costruttore» che nella piazza antistante il grande blocco di tubi colorati e tralicci non lo convincono le parti aggiunte della Torre di Ircam e l’Atelier Brancusi.
È opinione ormai condivisa che il Beaubourg sia un’architettura dal carattere forte e rivoluzionario per quel «rifiuto della forma» che lo ha ispirato. Diversamente da oggi, dove l’architettura ostenta solo la suadente ricerca di fogge ludiche e strabilianti alle quali Piano stesso a volte resta stregato, l’edificio parigino è quello dal quale salpare. Un porto sicuro per continuare a cercare Atlantide.

 

SCHEDA

Ora che la casa unifamiliare a Cusago disegnata da Renzo Piano è stata aggiudicata ad un’asta del Tribunale di Milano ci si augura che non sia demolita per ricostruirne una in stile vernacolo com’è successo a una delle quattro che componeva la piccola lottizzazione che l’architetto genovese realizzò tra il 1970 e il 1974. Delle altre una è stata trasformata dentro pur salvaguardando l’involucro esterno, mentre l’ultima è stata demolita e ricostruita seguendo le indicazioni dello studio Renzo Piano Building Workshop. Per salvare la villa dall’incuria e dall’abbandono si era mobilitato anche Docomomo Italia: l’associazione internazionale che si occupa di documentare, conservare e valorizzare l’architettura del Novecento. Tuttavia, come per altri casi, non c’è stato il risultato atteso, ovvero l’auspicato intervento di qualche istituzione pubblica per recuperarla. L’intervento del giovane Piano nel comune lombardo avrebbero meritato ben altra attenzione e rispetto trattandosi dei primi tipi a pianta libera coevi della sede B&B a Novedrate (1971 -1973) e che in seguito, per quanto riguarda il sistema costruttivo, ad un’altra scala saranno replicati nel quartiere Il Rigo a Corciano (1978-1982), vicino a Perugia. Come ha evidenziato l’accurata ricerca di Lorenzo Ciccarelli in Renzo Piano prima di Renzo Piano (Fond. Renzo Piano, Quodlibet, 2017), questa serie di architetture rappresentano la «preistoria» dell’architetto genovese nelle quali egli affina tecniche di prefabbricazione e soluzioni abitative già in parte in nuce nella costruzione del quartiere Boschetto (1968-1970) a Genova Sestri Ponente. Nella dimensione domestica le prime invenzioni tecnologiche di Piano rappresentano un tassello troppo importante del suo lavoro perché ne sia trascurato il significato, soprattutto oggi, nella prospettiva di un abitare razionale e logico con l’ambiente e la città, mai così correttamente concepito come a Cusago. (ma.giu.)