Nel quadro della XXIII edizione della Borsa mediterranea del turismo archeologico attualmente in corso a Paestum, si svolgerà domani un ciclo di conferenze su Memoria, eredità, patrimonio: il ruolo dell’archeologia. All’incontro, curato dall’Associazione nazionale archeologi (Ana), parteciperà anche Giancarlo Garna, ricercatore con alle spalle numerose campagne di scavo in Italia e in Medio Oriente. Abbiamo dialogato con lui intorno al tema che porterà all’attenzione del pubblico.

I conflitti che negli ultimi quindici anni hanno coinvolto diversi paesi del Medio Oriente, del Mediterraneo e dei Balcani, hanno causato la distruzione di numerosi siti archeologici e un poderoso incremento del traffico illecito di reperti, uno dei commerci più redditizi al mondo secondo l’Unesco. In tale contesto, com’è cambiato o come dovrebbe cambiare il ruolo dell’archeologo?
Il nostro è un lavoro che risente di molti stereotipi e veniamo identificati ancora troppo facilmente con Indiana Jones o i Monuments men. Da una parte, in Italia, le Soprintendenze impediscono – innanzitutto per ragioni di sicurezza – le visite dei comuni cittadini nei cantieri di scavo. Ciò non aiuta a farsi un’idea del mestiere dell’archeologo che sia il più aderente possibile alla realtà. Anche gli abitanti delle zone di guerra bersagliate dagli scavi clandestini e dal traffico illegale di oggetti antichi spesso conoscono poco o nulla del patrimonio che li circonda. Dall’altra, l’archeologo non può più considerarsi una monade dedita agli scavi e allo studio dei processi storici. Egli deve diventare attore sociale, veicolo di conoscenza e di legalità in seno alla società civile.

In un suo recente contributo pubblicato nel volume in onore di Armando De Guio ha affermato che l’archeologia non è solo la storia di manufatti e rovine ma la storia dell’identità culturale, la storia dei corpi, delle anime, delle memorie «viventi e vissute» del passato, del presente e soprattutto del futuro ovvero delle comunità a cui tali memorie vanno trasmesse. Come si rispecchia esattamente questa riflessione nel lavoro quotidiano dell’archeologo?
Per quanto mi riguarda, dal 2015 affianco al lavoro sul campo quello nelle scuole e nel mondo dell’associazionismo. Il mio impegno è rivolto alla divulgazione e alla denuncia di quegli atti di distruzione – compreso il traffico dei beni culturali gestito dalle cosiddette archeomafie – che privano le comunità della loro storia ma anche di un’opportunità di sviluppo economico del territorio. Produrre informazione, creare partecipazione e dunque formare delle coscienze è un obiettivo che ogni archeologo «moderno» dovrebbe prefissarsi. Ritengo sia infatti molto difficile cambiare la mentalità dei vecchi collezionisti, mentre si può instillare nei giovani la consapevolezza del valore del «museo diffuso», definizione che contempla non solo i singoli monumenti ma anche l’ambiente e la società che li accolgono e con cui essi interagiscono.
Gli archeologi, oggi, devono promuovere la tutela e la valorizzazione del patrimonio materiale e immateriale, inteso in senso ampio e inclusivo ovvero aperto alle interazioni avvenute nel corso dei secoli tra i popoli in differenti contesti storici, artistici e umani. È fondamentale coinvolgere le comunità locali nel processo di protezione e gestione sostenibile di tale patrimonio, affinché questo non sia ceduto alla mercificazione e alla criminalità organizzata.

La tutela è dunque un imperativo etico, che diviene anche strumento di democratizzazione della cultura. Non vi è tuttavia il rischio che il concetto di identità, sotteso a quello di patrimonio comunitario, spinga la politica (e talvolta gli stessi archeologi) a fare un uso distorto della memoria?
Credo che il ruolo dell’archeologo sia proprio quello di far capire come le identità non siano specifiche solo di una determinata comunità ma siano in contatto con gli altri processi storici che circondano le comunità, d’altronde esse stesse l’esito di contatti prolungati nel tempo e di mescolanze. Per un archeologo, lavorare in seno alla società, non dovrebbe significare spingere alla mistificazione della storia ma aiutare, al contrario, ad inquadrarne l’importanza in un contesto globale, accordando dignità a tutte le testimonianze manifeste. Abbiamo avuto modo di osservare, ad esempio, come la distruzione di Palmira da parte dell’Isis abbia indignato e scosso emotivamente il mondo intero, e non soltanto il popolo siriano, vittima – fra gli altri massacri – anche di uno dei più efferati genocidi culturali del nostro tempo.