Non v’è in linea di principio nulla che impedisca alle opere specialistiche d’essere anche vivaci. E, senza voler troppo ramingare con la fantasia, ho qui sulla mia scrivania due opere d’Iris Origo, Il Mondo di San Bernardino e Il Mercante di Prato, che sono l’uno e l’altra cosa. L’Inghilterra ha una lunga tradizione di scrittura saggistica, puntuale senza esser seccaginosa, ma in altri paesi, come il nostro ad esempio, si è spesso costretti a convenire con quel che scriveva Alvar González-Palacios in occasione della ristampa di Marmora Romana di Raniero Gnoli che, eccezion fatta per, taluni casi, come quello di Praz o di Gnoli appunto, «gli uomini italiani di sapere – o se si vuole di scienza – non sempre si distinguono per la grazia stilistica».
Accanto ai bei volumi, sfortunatamente non più ristampati, della Origo, ho da poco ricevuto Il cimitero dei libri di Adina Hoffman e Peter Cole i quali, senza che li si voglia accostare, né per tipo di scrittura né per sensibilità, agli autori detti sopra, hanno in comune con loro la caratteristica di saper essere documentatissimi e vivaci insieme. Sotto il profilo dell’informazione, infatti, Il cimitero dei libri (Officina Libraria, pp. 255, euro 19,50) è un volume eccellente. La tappe che portarono alla scoperta, nella sinagoga di Ben Ezra a Fustat – antico centro storico della città del Cairo –, d’una remota geniza sono state scrupolosamente ricostruite. Codeste genizot erano sorte di depositi o ripostigli (ganj o kanji è «riserva» o «tesoro nascosto» in persiano) dove il popolo ebraico ammassava tutti quei documenti che non potevano essere né gettati né distrutti perché il nome di Dio, vergato fra le loro pagine, imponeva che fossero seppelliti dopo un laborioso rituale funebre. Nell’attesa di essere un giorno ravvolti in strisce di cuoio o di tessuto bianco oppure di venir sistemati in grandi ceste di vimini, secondo l’uso cerimoniale, essi giacevano ammassati in un ripostiglio della sinagoga, talvolta per secoli. Ai più queste colossali cataste di scartoffie dovevano suggerire l’immagine di un «ospedale di vecchi mobili che avevano raggiunto l’ultimo stadio del decadimento», come disse Heinrich Heine, ma già alla metà del diciannovesimo secolo alcuni viaggiatori avevano intuito l’importanza della Geniza del Cairo che infatti di lì a poco sarebbe diventata oggetto di razzie da parte d’equivoci cacciatori d’antichità.
Il primo a studiarne sistematicamente il contenuto fu, tuttavia, Solomon Schechter, lettore in Studi rabbinici all’Università di Cambridge. Quando questi nel 1896 «si arrampicò per una scala a pioli traballante per raggiungere l’apertura semibuia che pareva portare a un solaio e i suoi occhi sgranati si adattarono all’oscurità, si ritrovò a fissare uno spazio pieno fino all’orlo degli scarti accumulati nel corso d’una decina di secoli soprattutto dalla classe media di una comunità ebraica mediorientale: lettere, poesie, testamenti e contratti matrimoniali, polizze di carico e sentenze di divorzio, preghiere, ricette, liste di nozze, Bibbie, moduli di pagamento, responsa rabbinici, contratti, amuleti e ricevute». Sotto molti riguardi l’apertura della Geniza rappresentò per lo studio delle società medievali del Mediterraneo quello che la scoperta di Pompei ed Ercolano fu per l’indagine del mondo antico. Quel cumulo favoloso di ciarpe consunte rappresentava infatti quanto dalla società era stato tralasciato e rimosso. Tracce d’esistenze umili e anonime, di vite spezzate o dimenticate di eretici, di rabbini, di mercanti, di viaggiatori, di copisti, di giudici, di filosofi erranti e di poeti – tutto ciò che il tempo aveva un giorno travolto e disperso – riaffioravano adesso in questi tenui lacerti di pergamena. Era il superbo arazzo della Storia che esibiva l’ordito dei suoi fili segreti.
V’è nel libro una materia avventurosa, costituita da predoni, ruberie, milionari, avventurieri, viaggi e ritrovamenti inaspettati, unita a un trattamento meticoloso; qualcosa di quel genere di romanzesco particolare che si trova nei racconti della Byatt, che qui però resta contenuto nell’ordinamento del soggetto, senza che venga meno il rigore del trattato: un saggio scrupoloso, insomma, disposto come un lavoro di finzione. Ma il sottotesto più interessante è costituito da una vertiginosa e sottilissima mise-en-abyme per la quale Il cimitero dei libri finisce con l’essere un doppio del suo oggetto stesso. «La Geniza – scrivono gli autori – racconta la storia di molte generazioni ognuna delle quali preservò, trasformandola, una parte della tradizione che ricevette»; ma codesto significato di custodia e trasmissione d’una cultura ebbero anche gli sforzi degli studiosi moderni della Geniza, sicché gli uni sembrano i continuatori degli altri. Come nel caso dell’anonimo compilatore medievale, il significato del lavoro di tanti umili bibliotecari e ricercatori, che alle volte si limitarono a sistemare, ripulire, catalogare o trasferire da un paese all’altro l’immenso materiale della Geniza, non fu individuale infatti ma collettivo, corale. I primi come i secondi erano i tasselli d’un disegno che li trascendeva: ricostruire la continuità della grande eredità culturale ebraica.
Così, dinanzi all’enorme massa di frammenti dalla quale era circondato, Schechter confessava: «mi è impossibile resistere al sentimento di tristezza che mi invade al pensiero che difficilmente avrò l’onore di vedere tutto ciò che la Geniza aggiungerà alla conoscenza degli ebrei e del giudaismo. Questo non è un lavoro per cui basti un uomo solo e nemmeno una generazione». E tale è quest’impressione di simmetria che alle volte le esistenze paiono sovrapporsi («Stranamente – si dice nel libro – la profonda inquietudine di questo periodo storico [cioè dell’epoca della Geniza] rispecchiava la vita di Mann, in continuo movimento, e i suoi tempi»), e certi «eroi medievali e moderni» aver contribuito alla trasmissione d’un sapere e d’una cultura in quella stessa maniera, soffocata e silente, di Wertheimer, uno fra i primi scopritori dei frammenti, il quale, rivendicando d’esser stato lui «a far conoscere al mondo l’importanza di questa Geniza», si rammaricava di come gli altri studiosi l’avessero poi spogliata, diventando essi stessi famosi, sicché «nessuno si ricorda più del pover’uomo che ha portato alla luce la città».
Oggi il povero Wertheimer può riposare in pace, giacché il libro di Adina Hoffman e Peter Cole ha conservato il suo nome, come già aveva fatto la Geniza con quanti, umili e magnifici, avevano inconsapevolmente intessuto nel buio catacombale dei suoi recessi la storia del popolo di Giuda.