Come è noto, Luigi Di Maio studia da tempo da presidente del consiglio. In questi giorni sta compiendo il passaggio ulteriore: si impegna a tutto campo per rafforzare la sua immagine di uomo delle istituzioni, padrino della Terza repubblica. Ecco perché parla quasi da uomo super partes. Questo è lo spirito che traspare dalla lettera inviata a Repubblica: «Ho detto in ogni città dove sono stato in campagna elettorale che il governo per noi si sarebbe potuto fare in base a convergenze sui temi – scrive Di Maio – Ed è la linea che intendo portare avanti in totale trasparenza di fronte ai cittadini e al capo dello Stato. Tutte le forze politiche devono manifestare responsabilità in tal senso».

IL «CAPO POLITICO» DEL M5S si spinge fino a citare Alcide De Gasperi: «Politica vuol dire realizzare». Da presidente del consiglio il leader democristiano pose la questione di fiducia sulla legge elettorale come Gentiloni ha fatto con il Rosatellum, suscitando le ire dei 5S. Anche se c’è da dire che già in campagna elettorale il leader grillino aveva detto di ammirare i dc come De Gasperi ma non quelli alla Cirino Pomicino.

Il neodeputato Emilio Carelli, che pare abbia ricevuto l’incarico di curare i rapporti col centrodestra , spiega che la lettera «dimostra la volontà di aprire una reale trattativa sul programma per un governo del cambiamento». Anche Danilo Toninelli disegna uno schema del genere: il M5S come garante di un esecutivo «né di destra né di sinistra» che sfidi l’ingovernabilità: «Le coalizioni non hanno numeri per governare – spiega Toninelli – Ci assumiamo noi questa responsabilità: facciamo un appello a tutti i partiti per un governo che metta al centro i temi cari a tutti i cittadini».

ED ECCOLI, I PRIMI di questi punti programmatici che dovrebbero unire al di là degli schieramenti e fondare la «Terza repubblica post-ideologica»: «Creare lavoro, combattere la povertà, abbassare le tasse e tagliare gli sprechi per mettere soldi dove serve». Dentro le manovre para-istituzionali del M5S si inscrive anche l’attivismo di Manlio Di Stefano, deputato che nella scorsa legislatura era in commissione esteri e manifestava intenti tutt’altro che filo-europeisti. Adesso invece si è preso l’incarico, assieme alla ministra virtuale Emanuela Del Re, di tenere relazioni diplomatiche e di informare le cancellerie europee dei propositi pentastellati: «Siamo già al lavoro – twitta Di Stefano – In questi giorni io ed Emanuela Del Re stiamo incontrando gli ambasciatori europei. Parliamo di programmi, progetti e visioni e di come l’Italia sarà pronta a riprendersi un ruolo centrale in Europa in questa Terza repubblica».

DA UN PAIO DI GIORNI, peraltro, i grillini stanno utilizzando i social network per far circolare una mappa del voto alternativa a quella utilizzata dai mass media in questi giorni. Invece di quella che riporta i vincitori dei collegi uninominali (e che quindi manifesta la grande prevalenza del M5S nel sud Italia, a discapito del nord), gli influencer pentastellati e i big del partito stanno pubblicizzando la cartina che mostra i luoghi in cui il M5S è il primo partito, al di là delle coalizioni. Lo scopo è quello di presentare il M5S come vero «Partito della nazione» e non farsi schiacciare nell’immagine che relega il voto grillino soprattutto nel Meridione, quasi speculare alla Lega. Ma proprio le simmetrie coi leghisti, al di là di alcune analogie programmatiche, assieme all’indisponibilità sia di Di Maio che di Matteo Salvini a farsi da parte per la presidenza del consiglio, obbligano il M5S a giocare le sue carte guardando verso il Pd. «Fatte salve le prerogative del Presidente e le maggioranze parlamentari, mi sembra molto ovvio quale forza politica sia meglio indicata per guidare questa legislatura», dice Lorenzo Fioramonti, ministro dello sviluppo economico designato.

SUONANO STONATE, ma vanno registrate nel computo della complessa e caotica situazione, le polemiche dentro al M5S romano. Le chat interne sono roventi: al di là delle dichiarazioni di prammatica della sindaca Raggi, il M5S è cosciente di perdere voti proprio a Roma. A microfoni spenti, più di un grillino constata: «Amministriamo la città ma la sindaca ci ha trascinato verso il basso: abbiamo perso 13 punti a Roma in meno di due anni». Il crollo di consensi in assoluta controtendenza rispetto al dato nazionale contribuisce a inasprire di nuovo le relazioni tra Raggi e Roberta Lombardi, sconfitta nella corsa alla Regione Lazio. «Non si può dire che Raggi abbia apertamente boicottato la corsa – spiega un attivista – Ma non c’è dubbio che il loro difficile rapporto abbia avuto conseguenze e sia stato deleterio per il voto nella capitale. Ora comincerà la resa dei conti. Lombardi non pare disposta a lasciar correre».