Per permettergli di capire il profilo e il disegno della storia europea del Novecento, e non solo, la prima cosa da fare, con uno studente, sarebbe il mostrargli in successione le cartine dell’Africa nel corso del secolo precedente, durante i decenni della spartizione esercitata dal consesso delle potenze continentali. Allo sbriciolamento dei territori, della loro unitarietà, e con essi delle loro collettività, si accompagna una spasmodica occupazione di terre ed espropriazione di risorse che giunge fono ai giorni nostri, in forma traslata, attraverso le strutturali diseguaglianze del mercato internazionale. Che non sono segno di alcuna patologia bensì di una fisiologia sistemica.

PARLARE del colonialismo e, soprattutto, delle sue tante eredità, non costituisce allora un inutile esercizio di penitenza postuma, a corredo di un senso di colpa che va in qualche modo esorcizzato, ma piuttosto una necessaria riflessione sull’alter ego dell’incompiuta coscienza europea nell’oggi. Coscienza di sé, beninteso. Non è quindi un caso se un Paese diviso e sezionato qual è l’Italia, auto-colonizzatosi in più parti nel corso del XIX secolo, fatichi a raccontarsi, anche solo timidamente, le sue tardive partecipazioni alle «imprese imperialiste» sotto la cui egida si sono consumate le vicende dello smembramento delle società conquistate. Inutile il richiamo agli eventuali vuoti dei manuali di storia, alle omissioni ripetute o alle tardive assunzioni di consapevolezza se non si tiene in considerazione questa cornice di lungo periodo. Così come il fatto che, quando si parla di retaggio coloniale, ci si riferisce non solo a dinamiche politiche ma soprattutto alla costruzione di modelli antropologici, ossia a visioni delle relazioni sociali tra esseri umani destinate a consolidarsi, a stratificarsi e ripetersi nel tempo. L’immaginario coloniale è infatti fortemente sessuato: il modello è quello predatorio della penetrazione e del possesso, sul quale si è costruito un solido impianto ideologico che fa da ossatura ai rapporti di potere, ovvero al loro occultamento sotto il discorso dei differenziali di civiltà.

IL COLONIZZATO è «femmina», essere infimamente inferiore poiché disposto «fisicamente» e materialmente ad assumere una posizione subalterna, passiva, orizzontale. Il costrutto coloniale coniuga, attraverso la legittimazione legale alla sistematica violazione dei corpi (dal gregarismo allo sfruttamento, dallo loro schiavizzazione all’eventuale sterminio), il legame tra dipendenza e impotenza, rimandando all’appagamento del dominatore. Non a caso, l’immagine delle colonie e dei colonizzati si trasferisce e si sovrappone a quella dei rapporti sociali in patria tra gruppi diversi: è uno strumento ordinativo per naturalizzare le differenze sociali, per affermare che i differenziali di potere, di risorse, soprattutto di opportunità sono inscritti in una «storia fatale», quella che è dettata dalla natura degli individui, intrinsecamente differenti e, come tali, destinati a conoscere approdi necessariamente diversi, secondo una scala di valori che sarebbe puramente oggettiva, registrando i dati di fatto.

INDRO MONTANELLI rimane parte integrante di questo dispositivo politico e culturale, che sopravvive al regime storico che se ne è maggiormente avvantaggiato. Sopravvive come tracciato mentale, come modo di percepire gli individui attraverso il filtro delle appartenenze etniche, intese nel loro costituire elementi che stabiliscono gerarchie di valore non negoziabili tra le vite. Un filtro che ancora oggi funziona appieno, al netto delle differenze storiche rispetto al passato. I rimandi alla «contestualizzazione» per legittimare, a posteriori, il madamato infantile, sono solo l’ombra lunga di questa brutale, ma del tutto funzionale, macchina della segregazione, per nulla esauritasi ai tempi correnti. Quanto meno nell’immaginario collettivo, poiché le colonie, in non pochi casi, non sono più in loco ma si sono trasferite nella gigantesca macchina della produzione in terra d’Europa. Ma c’è qualcosa di più nella figura del giornalista tosco-milanese che permane nel tempo, decretando anche la sua inossidabile, insindacabile e incontrovertibile credibilità dinanzi a un’ampia platea di lettori (ed elettori) conservatori. Si tratta del suo disprezzo per i movimenti sociali, ovvero sia per la loro autonomia civile che per la capacità, da parte delle collettività, di esprimere in autonomia una propria classe dirigente.

PER MONTANELLI, e in quella letteratura pseudo-storica di cui è stato una delle penne più brillanti, questa scissione è permanente. Anzi, fonda un universo di valori. Non è la collettività che possa decidere per sé, sono i capi che debbono decidersi quale collettività vogliano. La sua celeberrima «storia d’Italia», campione di vendite, mietitrice di successi, è l’apoteosi di questa impostazione. Interrogarsi sul grado di adesione di Montanelli al fascismo, e sulle sue dissociazioni, è quindi un esercizio pressoché privo di senso. Poiché rimanda all’incomprensione di cosa fosse il fascismo medesimo e di quale e quanta trama fosse composto, a partire dalla capacità, che ci sfida a tutt’oggi, di costruire, attraverso il concorso di una macchina mitologica in costante movimento, una fabbrica di consenso.

Un nucleo fondante, sospeso tra freddo cinismo e irriverente narcisismo, compiaciuta creatività e crudele ingegno, che vede insieme a «Cilindro» altri autori di vaglia, come Leo Longanesi, Mino Maccari, Curzio Malaparte solo per fare qualche nome. Il destino di ognuno d’essi, e d’altri ancora, quand’anche abbia assunto pieghe molto diverse da quelle originarie, si forgia nella temperie culturale fascista e ne riassume e riproduce i meccanismi per ondate successive, nel corso del tempo, traslandoli in forme di accettabilità tra il grande pubblico. Fino ad arrivare a oggi, a un genere di pubblicistica, scritta così come esibita, ovvero urlata in video, che evoca ossessivamente l’«anticonformismo», l’«essere fuori dal coro», il richiamo al populismo degli stracci per celebrare la propria superiorità di ceto intellettualizzato e del tutto proclive alle logiche di quei poteri corporati di cui ne finge la critica.

LA SESSUALIZZAZIONE rivendicata da tutta la letteratura fascistoide, si inscrive a pieno titolo dentro quest’ambito di idee, pensieri, fantasie e narrazioni. Poiché dietro la cortesia e i formalismi di facciata, le rispettosità salottiere e i ritualismi sociali pennellati di nero, l’idea di «ordine» fatto naturalisticamente coincidere con quello di «gerarchia», rivela la brutale combinazione tra patriarcato, machismo, paternalismo e misoginia che sono tra i perenni garanti ideologici della cristallizzazione dei ruoli sociali.
Il nesso tra «negro» e «femmina», due figure strategiche nel simbolismo dei rapporti tra schiavo e padrone, è d’altro canto una delle maggiori eredità che il colonialismo italiano ci consegna. Proprio perché «straccione» (Gramsci), incapace di fare valere le ritardate ragioni di un Paese che voleva inserirsi nel consesso dei vincitori quando era già abitato al suo interno da una popolazione di vinti, ha trovato nel fascismo la sua struttura più efficace, maggiormente efficiente, quella che più e meglio è riuscita a lubrificare e a dare forza a un desiderio di sublimazione dei conflitti sociali spacciandolo per autoaffermazione collettiva. Non a caso, rimane a epitaffio di un’esperienza esistenziale la nota constatazione montanelliana per cui «non si sarà mai dei dominatori, se non avremo la coscienza esatta di una nostra fatale superiorità. Coi negri non si fraternizza. Non si può, non si deve. Almeno finché non si sia data loro una civiltà».

MA CIÒ CHE IL FASCISMO porta avanti è qualcosa che gli preesisteva, già tematizzato da una parte delle classi dirigenti in età liberale, anche dinanzi alla crescente dirompenza della «questione sociale», e poi ripreso da quanti hanno sempre mal digerito il discorso costituzionale intervenuto dopo due guerre mondiali. Non a caso, infatti, questo calco si ripresenta oggi, sotto spoglie neanche troppo differenti da quelle passate. Ribalta tuttavia i termini della questione, per mantenerne comunque intatta la dirompenza: non si tratta più di conquistare bensì di non essere conquistati; non di possedere ma di non essere posseduti; di non farsi colonizzare, poiché l’esistenza è una lotta spietata per il dominio. Il timbro letterario profondo non è la ricerca del rispetto ma quella del disprezzo. Ancorché rivestito di una qualche nobiltà espressiva, nel mentre strizza l’occhio ai disagi di un ceto medio in via di declassamento sociale, offrendogli come rifugio la logica del branco: la falange dei civilizzati contro le orde dei selvaggi, un insieme indistinto di corpi, alternativamente da possedere o distruggere.