Un uomo e una bambina sulle sue spalle avanzano lentamente in una galleria buia. La macchina da presa li precede e accompagna in un lungo piano sequenza necessario a far pervenire a chi guarda tutto il senso di fatica e di pesi interiori che da tempo abitano l’uomo. Una camminata sofferta che sfocia nelle urla di entrambi, urla di liberazione dal dolore, dalla stanchezza, dal lutto. Quell’uomo, Ingimundur, e quella bambina, Salka, sono nonno e nipote, protagonisti di A White, White Day – Segreti nella nebbia, opera seconda dell’islandese Hlynur Pálmason che dopo due anni (e aver vinto nel 2019 il Torino Film Festival) è arrivata nelle sale italiane.
Pálmason aveva esordito nel 2017 con un altro dramma familiare, Vinterbrøde, girato in Danimarca e co-produzione danese-islandese. In A White, White Day siamo invece in un remoto paese dell’Islanda che le immagini iniziali, fisse, tratteggiano come una serie di quadri: una fattoria, una parte di essa da ristrutturare, le montagne, i pony, le variazioni del clima. Il tempo pare immobile, la quotidianità ripetersi. Così come il trauma che non abbandona Ingimundur, ovvero la morte della moglie in un incidente d’auto, evento sul quale il film si apre. Non tanto un flash back, quanto un momento di memoria che convive con il presente, reso ancor più drammatico e stratificato quando Ingimundur scopre, tra gli oggetti della moglie che la figlia Elín gli dà, tracce del tradimento della consorte. Pálmason sparge queste rivelazioni nel corso del film con accortezza e senza enfasi. Perché anche nelle scene più tese e violente, quelle degli scontri verbali e fisici tra il protagonista e l’amante della moglie, il suo sguardo è rarefatto, lavora per sottrazione, assorbe le esplosioni diegetiche in una rigorosa e mai di maniera confezione formale.

CINEMA DI REALISMO materico che sconfina nel visionario, quello di Pálmason, che affonda in una natura che sa di apocalisse, visualizzando così il doppio malessere (la morte, il tradimento dell’amata) che occupa la mente di Ingimundur. E se l’inizio è ancorato in un recente passato pregno di dolore, la fine di A White, White Day è affidata all’uscita da esso, alla riconciliazione. Dopo le urla di sfogo fuori dalla galleria (che già di per sé costituiscono un finale perfetto), ecco l’epilogo mélo, le lacrime di Ingimundur che, seduto sul divano, immagina di rivedere la moglie. Una scena che scioglie le tensioni accumulate e conferma Pálmason come uno degli autori più interessanti dell’odierno cinema islandese.