Da principio nell’oscurità si scorge solo una parete che chiude la luce della scena. Che sia Peter Stein? Dice infatti il programma di Romaeuropa che dietro il titolo grazioso e naturalmente anglofono della nuova creazione di ricci/forte, Darling, si nasconde addirittura l’Orestea di Eschilo. E come non ripensare allora a quell’indimenticabile spettacolo del regista tedesco che si vide anche a Ostia, a quel fuoco che si accendeva in cima alle mura per annunciare la fine della guerra. Ma è illusione che dura poco. Basta che in alto si accenda invece la luce fredda e senza ombre di una ventina di neon, mentre già è partita una rumoreggiata di versi animali, uno scalpiccio di cavalli al galoppo, perché quella parete si riveli un container metallico. Dove l’aprirsi di un paio di finestrucce indica forse un suo improprio uso stanziale.
Intanto sono apparsi anche gli interpreti. Tre giovanotti vestiti in maniera formale, da avvocati milanesi, anche se avvolti in una coperta come fossero appena sbarcati da una carretta del mare – e forse lo sono, quando il palcoscenico è un approdo. In cima al container una giovane donna in abito settecentesco, il volto imbiancato da una maschera di lattice e incorniciato dalla spuma di una candida parrucca. È lei la prima a parlare, con fatica, quasi che le parole fossero spasmi. E questa ostruzione della parola che rasenta l’afonia, questa volontà di rendere straniera la lingua parlata sulla scena contano più di quel che ci dice, precetti matrimoniali o qualcosa di simile. Diventano un segno che percorre tutto lo spettacolo, un segno dei tempi o un marchio generazionale si sarebbe tentati di dire.
Più che un nome ricci/forte è un brand. «È il mio primo ricci/forte!» esclamava una ragazza entusiasta per l’acquisto, l’altra sera all’ingresso del teatro Eliseo. Come fosse la prima borsa di Prada. Nel giro di pochi anni i due artefici, Stefano Ricci e Gianni Forte, sono stati capaci di imporre il loro teatro a un pubblico fedele e innamorato. Un teatro che nuota nella contemporaneità, che ne riflette le ossessioni e i luoghi comuni, che ne utilizza il linguaggio senza bisogno di traduzione. La contemporaneità urlata dai media e quella digitale costretta a esprimersi nei pochi caratteri di un tweet.

 
La regola del gioco del bricoleur che per decenni è stata alla base di tanta scrittura scenica, l’arte combinatoria di materiali eterogenei tirati fuori dal grande magazzino della cultura di massa se non dai suoi residui, è diventata un patrimonio collettivo. E trova puntuale applicazione anche qui, nel volteggiare per niente leggero di Darling fra canzoni di un altro tempo, da Mick Jagger a Burt Bacarach (ma ci sono anche Sinatra e i Led Zeppelin e un valzer di Strauss…), e immagini cinematofiche che hanno segnato un’epoca di febbri del sabato sera e spot pubblicitari e cartoni animati compressi in un’unica dimensione dallo schermo televisivo. Tutto ricondotto a un presente continuo.

 
Ma sarebbe fuorviante leggere il teatro di ricci/forte soltanto in termini generazionali. Cose di trentenni o quarantenni, che pure ci stanno. Non per caso Darling segna visibilmente uno scarto rispetto a quel che rischiava di diventare il loro cliché, l’eccesso in colori pop. È che nel teatro ciascuno ci legge quel che vede e sente, senza chiedere permessi. Non c’è più una tradizione a cui riferirsi, nemmeno per lo spettatore. E conta allora come quei materiali funzionano sulla scena, dove intanto loro, i quattro interpreti (sono Anna Gualdo, volto e corpo storico di ricci/forte, insieme a Giuseppe Sartori, Piersten Leirom e Gabriel Da Costa), hanno vestito inquietanti tute arancione e preso a smontare pezzo per pezzo il container, a cominciare dalla parete frontale che cala come un ponte levatoio a mostrarne l’interno. La casa degli Atridi è rimasta vuota e bisogna riempirla di corse e salti, gag acrobatiche e giochi infantili e esercizi di danza alla sbarra però in un fragore assordante e monologhi ermetici che dicono la loro sfiducia nel mondo nuovo che è alle porte ma peggiore, trasposto visivamente nella coltura di bambolotti tutti uguali piantati nei vasi che hanno invaso la ribalta.

 
E l’Orestea allora? C’è anche questa, naturalmente, fra una evocazione dell’ultimo Artaud e una battuta rubata a Beckett e chissà quanti altri frammenti testuali che lì per lì non si è colto. C’è nella reinvenzione in chiave di teatro di burattini dell’incontro fra Oreste e la sorella Elettra, lui che spiega di dover uccidere mamma, lei non tanto convinta. Nel riquadro della finestra che funge da teatrino, due mani guantate simulano grandi bocche che dialogano in un francese volutamente ingenuo. Chi è Cassandra? La nuova copine di papà… Ma forse c’è dentro anche in maniera più segreta, come riverbero di qualcosa che è stato cancellato dalla faccia visibile ma rimane nella memoria. Come se lo sbiadire del testo portasse alla luce una trama di rapporti familiari anche dolorosi, di memorie personali. E che momento quell’incombere di un elicottero sul gruppo che ballando ha ritrovato il corpo di John Travolta. La nostra apocalisse, ora. Sarebbe perfetto se finisse qui.