«Quando il sole è alto, voi fate festa ma per noi il sole brucia solo. Brucia nei polmoni di chi sta su un’impalcatura alla mia età. Le mani tremano e la schiena fa male come se ti pugnalassero da dentro, se per anni hai avuto a che fare con un martello pneumatico. Quando ero giovane era quasi un gioco saltare da un’impalcatura all’altra o afferrare al volo il gancio della gru, ma ora – ogni volta che salgo su un tetto – ho una paura fottuta. E mi sento pure di dire grazie, dopo mesi di disoccupazione, al geometra che mi ha chiamato a faticare, che forse mi versa anche i contributi».

Questa lettera l’ha scritta uno dei 23 mila operai edili che, con più di 63 anni, nonostante il lavoro gravoso e faticoso, dovrà aspettare i 70 anni per andare in pensione. Perché lui, come altri, non potrà beneficiare dell’Ape agevolata varata dal governo. Perché 36 anni di contributi, di cui gli ultimi sei di lavoro continuativo, non ce li ha praticamente nessuno (in tutto meno di 500, secondo il fondo Prevedi).

Perché il lavoro edile è particolare: e lo Stato lo sa, visto che fa pagare per la cassa integrazione e per i contributi Inail più di tutti a questo settore. È strutturalmente discontinuo, con mesi di non lavoro e cambi di aziende costanti. Mediamente (quando tutto, ma proprio tutto va bene e facciamo finta che non ci sia lavoro nero) un operaio edile ha 15 settimane l’anno di non lavoro (dati Inps) e cambia dalle tre alle quattro aziende.

Si è condizionati dal tempo e dalle stagioni, il contratto inizia con l’apertura del cantiere e si licenzia quanto il cantiere finisce. E ci sarà forse un legame tra l’età e gli infortuni, se è vero che un incidente grave su quattro riguarda operai over 60. Ci sarà un legame tra il lavoro fatto e un’aspettativa di vita inferiore di sette anni rispetto alla media degli italiani.

Dobbiamo mandare questi operai a fare i nonni e, magari, assumere qualche giovane tecnico in più. Sarebbe giusto, sarebbe utile, alle imprese oltre che al Paese, anche in chiave di ripresa economica e qualificazione del settore. Tutto questo lo abbiamo spiegato più volte, e lo confermiamo ancora oggi, alla luce di quanto detto ieri dal governo al tavolo con in sindacati.

E non può bastare la promessa di introdurre una «limitata flessibilità», i decreti attuativi non possono non tenere conto della realtà, e cioè che i lavori non sono tutti uguali. A questa realtà deve corrispondere l’azione, altrimenti siamo di fronte a chiacchiere, dietro cui si cela una truffa ai danni di lavoratori fragili. E, come diceva Don Milani, non c’è cosa più ingiusta di fare parti uguali tra diseguali.

*Segretario generale Fillea Cgil