Il catalogo del Maam, Museo dell’altro e dell’altrove di Metropoliz città meticcia, per i tipi della Bordeaux Edizioni, a cura di Giorgio De Finis, è fatto di 989 pagine. Siamo fuori dalla metafora quando diciamo che è un mattone. E continuiamo a essere fuori dalla metafora quando spieghiamo che su questo mattone è stato costruito «un super luogo», per usare la definizione di Marc Augé, un super mondo, dove il nietzschiano consiste nel superamento del miserabile politico, nella conquista dell’umano più umano contro chi traccia confini, a causa dei quali di alcuni esseri umani si può dire «clandestini».

DA SPAZIO DI TERRA sottratto all’abbandono per essere popolato dei desideri dei migranti che abitano le periferie della nostra terra di mezzo, questa occupazione è diventata avamposto di una dignità planetaria. Visto dalla luna, dicono gli astronauti, esso appare come il luogo bandiera di una vita solidale, dove l’opera d’arte più bella, tra tutte quelle che sono arrivate a difendere il campo dagli sgomberi, installandosi nella antistante salumificio dismesso, è «il pensiero di una casa e di un reddito per tutte e per tutti».
C’è anche lo sguardo inverso: sulla torre della fabbrica un telescopio orgoglioso, opera di Gian Maria Tosatti, osserva la luna per ricordare a chi abita faticosamente questo presente che c’è sempre «una pagina bianca da scrivere», una realtà da costruire, una lotta da fare.
Sono tante le menti, i cuori, le opere, le feste, i concerti, le presentazioni, le parole che hanno attraversato il Maam. Esperienze che sembrano strette con fatica nella rilegatura poderosa a di questo volume, come se ne volessero uscire. Sono tanti quelli che hanno tentato di spiegare la genesi e il futuro di questa «chiamata alle arti», dove le opere sono diventate sentinelle contro la politica degli sgomberi, la xenofobia dilagante, la mortificazione della chiusura delle frontiere, contro la demenza sovranista e anche contro le inadeguate politiche culturali capaci solo di togliere gioia, invece di darne.

Ci ricorda Giuseppe Allegri, nel suo scritto che assomiglia a una biografia dell’accaduto, che si è trattato di «estrapolare la teoria dai suoi contesti ed inserirla in una intransigenza gioiosa e traviata, retaggio esistenziale dei visionari che hanno fondato questo spazio artistico a tutela degli spazi abitativi».

INDIMENTICATA LA VISIONE degli incendi di Paolo Buggiani, che al Maam dice di ritrovare la Manhattan del settanta, quando si cominciava a mettere «a ferro e fuoco» (titolo della sua opera qui) lo stato delle cose presenti. E bello il cancello che invece di chiudere apre, dove Davide D’Elia ha impresso la sua pittura vinilica, ma solo nella parte superiore, per tracciare l’idea del confine da superare: quello tra la materia inerte delle passioni tristi e quello che decidiamo di farne.
Gli artisti pagano doppio, c’è scritto su un cartello nella sala dove si mangia e si beve. La sala dove si balla dopo l’ingresso di qualche nuova opera. È forse questo cartello la migliore installazione, quella che non smette di far sorridere per la docile durezza con la quale afferma una verità. O ci aiuta, ci guida, ci sostiene, ci sostituisce, ci euforizza, ci fanatizza nel tentativo di scardinare il reale o l’arte non ci interessa. Gli artisti pagano doppio, perché sono solo uno strumento nelle mani della sovversione: «Perché non sono nel Moma a New York?», si chiede Pablo Echaurren. E si risponde: «perché mi piace questo antimuseo».
Si diceva prima che a tenere in mano il catalogo si ha la sensazione di un’eccedenza. Nemmeno questa sensazione è una metafora. Il Maam vuole uscire, vuole colonizzare la città.