Che ce ne facciamo di questo Zeno Cosini irriducibilmente fumoso, inutilmente sovversivo, portato al debutto dagli Oyes al Metastasio di Prato? Diciamo che l’antieroe borghese di Italo Svevo, fra i massimi del Novecento, nel nuovo impianto disegnato da Simone Faloppa (dramaturg) insieme a Stefano Cordella e Noemi Radice (registi), intercetta lo spirito dei tempi, i nostri tempi, collerici e confusi. E allora scorie, malesseri, disagi, nevrosi passano con disinvoltura dal divanetto nobile e austero della psicanalisi al fraseggio isterico, al cicaleccio ingordo e scapigliato di una quotidianità che si rivela alla fine prevedibile ancorché schizofrenica. Zeno Cosini sa di condurre un gioco che più non gli appartiene. Nè servono a risvegliarlo immagini d’antan, voci, menzogne, memorie, burrasche del bel tempo che fu. Circondato dai suoi fantasmi, che lo incalzano con petulante ossessione, Zeno incrocia le braccia. Inerme spettatore. Spiace semmai, in questo flusso di accensioni improvvise e improvvisi deragliamenti, che della svagata eleganza dell’originale, del suo disinvolto disincanto, della sveviana perfidia narrativa, non rimanga che qualche labile, indistinta eco.