Un giorno Kakà, l’ex calciatore brasiliano, raccontò che in tutta la sua carriera aveva temuto due soli giocatori: Steven Gerrard e Javier Mascherano. Raccontò, l’ex calciatore di Milan e Real Madrid, che non aveva mai visto gli occhi di nessuno essere così infuocati come quelli di Gerrard mentre dava la carica ai compagni del Liverpool in quella famosa finale di Champions League del 2005 che il Milan si fece sfuggire in pochi istanti. Dell’altro, raccontò invece, che era l’avversario più ostico che aveva mai incontrato, non solo per la nota rivalità tra argentini e brasiliani. Lui non poteva mai superarlo, neanche buttando la palla avanti e rincorrendola, per i tackle in scivolata di Maacherano erano come rasoiate sulle gambe. O palla o avversario, sussurrò con un ghigno piuttosto significativo. Quasi un timbro, quello di Mascherano, capitano coraggioso che ora ha mollato il Barcellona, dopo anni di successi stellari, e si è rifugiato nell’oro cinese per chiudere, a 34 anni, una carriera per niente male. Poche reti, molti trofei, piedi non proprio raffinati, aneddoti parecchi, serate incredibili ancora di più. Mai però fuori dal campo, sempre dentro uno stadio.Una su tutte: la semifinale ai Mondiali 2014 contro l’Olanda con la sua Argentina. Prima dei rigori, i tempi supplementari; le forze sono poche, le calze abbassate perché i crampi sono pronti a mordere. Invece a mordere è lui, Javier, El jefecito lo chiamano gli amici nelle strade di San Lorenzo, pochi km a nord di Rosario, il “piccolo capo”, uno che non si arrende mai. Da bambino, non avesse avuto il calcio, sarebbe finito a lavorare in un campo di mais e soya. Incita i compagni, trasmette energia ma non urla, persino Leo Messi sta per cedere, lui lo tira per i capelli e lo porta ai rigori e alla vittoria finale. Gli occhi di Mascherano sono vicini, stretti e sprigionano vitalità, sorridono poco. Il corpo tozzo incastonato in una maglia da calcio non è mai stato un corpo come tutti gli altri. Javier Alejandro è un uomo duro, un giocatore tutto d’un pezzo. Qualche anno fa, intercettato dal giornale Panenka rilascia una dichiarazione che segnerà i tempi di un calcio romantico che non esiste più molto, sfatando il mito dell’assioma calcio e divertimento. Racconta che in campo soffre, molto. “I 90 minuti della partita sono sofferenza per me, solo per il fatto di restare totalmente concentrato, di non sbagliarmi, di prestare attenzione all’avversario ma anche al compagno. Soffro. Io mi diverto in allenamento, lì imparo. Credo che i giocatori con le mie caratteristiche la vivano così, non puoi godertela in un uno contro uno quando ti stanno attaccando”.

Soffre ma non ha mai paura. Sì, un po’ di volare a inizio carriera ma se la fa passare presto. L’idea di non poter controllare tutto lo rendo nervoso. Non ne aveva quando, assolutamente controtendenza se ne andò per due stagioni in Brasile, nel Corinthians. Non aveva paura quando andò al West Ham, assieme al connazionale terribile Carlos Tévez. Neanche dopo i mesi iniziali, difficili per il clima, gli stimoli nuovi, durante i quali maturò l’idea di trasferirsi al Liverpool e si trovò difronte centrocampisti solidi come Xabi Alonso, Cissoko e Gerrard. Fu mister Rafa Benìtez, che lo apprezzava fin dagli esordi nel River Plate e lo desiderava con sé a Valencia, a volerlo fortemente. Anni dopo provò a portarlo anche a Milano, sponda Inter, ma la carriera di Mascherano era decollata. Per fortuna e per coraggio. Arrivato alla corte di Pep Guardiola nel 2010, ci rimane per otto stagioni si ritrova un palmarès importante: quattro lighe, tre coppe e tre supercoppe di Spagna, due Champions League alle quali seguono perfino due coppe del mondo per club. E quella maledetta finale ai mondiali del 2014 persa in finale contro la Germania. Di quella sera lì ha paura, paura di non dormire la notte se ci ripensa. Quella sera è il migliore della squadra, lotta su ogni pallone, ma non basta. Messi un fantasma, lui un gigante, troppo solo per vincere. Però a Barcellona, si diceva, non fu facile all’inizio. Guardiola gli preferiva spesso Busquets, forse più dinamico di lui. Si rimboccò le maniche, all’allenamento era il primo ad arrivare, l’ultimo a uscire dal campo, rigorosamente con lo stesso piede. Non un vezzo qualsiasi, un saluto generoso e un segno di rispetto verso il terreno che lo ha visto crescere, farsi le ossa, diventare capitano, dettare schemi e tempi direttamente dal prato. Lo aiutarono i guai fisici del vecchio capitan Puyol e allora indietreggiò di una decina di metri e finì a fare il difensore centrale. Per Piqué, talentuoso ma poco leader, diventa una spalla solida, per la squadra un tessitore di trame aggiunto. Dai quei piedi un po’ ruvidi sono partite le migliori azioni della squadra. Non sono raffinati, però conosce le geometrie della disciplina. Sull’uno contro uno rimane imbattibile, lì dietro ancora più che al centro del campo esprime la sua miglior dote, l’anticipo. Rapidissimo nell’esecuzione, velocissimo nel pensiero. Non tatuato, non proprio bello, non depilato, non gli piace apparire. Niente scandali su di lui, una tranquilla vita familiare. Al Barcellona si sono avvicendati cinque allenatori e tutti lo hanno voluto. Quando l’estate scorsa si iniziò a parlare del suo trasferimento pare che Messi andò sia corso dai dirigenti del team a minacciare una dipartita in caso di cessione di Mascherano. E fu proprio Messi a lasciargli battere il calcio di rigore – stagione passata – contro l’Osasuna. L’unica rete con la maglia del Barcellona. 34 anni il prossimo giugno, in Cina se ne va a testa alta ma con la promessa di tornare ancora una volta da capitano coraggioso: con la sua Argentina per il mondiale, prima dell’addio alla nazionale. E, ben presto, purtroppo per i romantici delle sport tutto, anche al calcio.