Una mostra non incentrata su materiali di sorprendente valore artistico ha poche chance di imporsi in un panorama dominato da estetica e ricerca dell’emozione. Ma il museo di storia di Marsiglia diretto da Fabrice Denise, in partenariato con il museo di Arles antica, ha lanciato la sfida ospitando fino al 24 novembre l’esposizione On n’a rien inventé!, a cura dell’estroso archeologo David Djaoui. Partendo dalla rievocazione di un banchetto romano, del quale nella prima sezione si richiamano gli elementi fondanti – il triclinio, l’ebbrezza, l’erotismo – con qualche cenno all’immaginario moderno, la rassegna fa luce sui prodotti culinari dell’antichità attraverso il loro «doppio», il contenitore.

I REPERTI PRESENTATI provengono principalmente da un deposito d’eccezione: una chiatta di età gallo-romana (relitto Arles-Rhône 3) adagiata a nove metri di profondità sulla riva destra del Rodano ad Arles e la cui esplorazione, nel 2011, ha consentito di recuperare 3000 anfore (235 intere) e decine di migliaia di frammenti ceramici, oltre a ossa animali e resti di fauna malacologica.
Un allestimento dai risvolti pop-art mette a confronto oggetti antichi e contemporanei quali bottiglie di vetro e scatolette connessi alla gastronomia, mentre un apparato didattico che si giova soprattutto delle informazioni tratte dai tituli picti (iscrizioni dipinte su anfore, assimilabili alle attuali etichette commerciali) evidenzia la straordinarietà del passato per giungere alla conclusione che, in effetti, non abbiamo inventato nulla.

AL VISITATORE vengono proposte – anche tramite efficaci risorse multimediali – avvincenti «inchieste», come quella sul vino che permette a Djaoui di risalire alla nascita della denominazione d’origine, affermatasi a Roma nel 102 a.C., quando su un’anfora compare la menzione del celebre Falerno. Una piccola brocca si rivela invece essere un campione del rinomato bianco dei monti laziali, l’Albanum. Se dunque nel II secolo d.C. – periodo in cui le anfore italiche sono quasi assenti dai contesti del Rodano – era praticata la vendita all’ingrosso, in quali recipienti veniva trasportato il vino? Un’insolita pipetta di terracotta, trovata nel relitto Lardier 4 (Cap Lardier, Var) e utilizzata per prelevare il liquido necessario alla degustazione svela l’enigma, accertando l’uso delle botti.

LA RICCHEZZA di dati sulle abitudini alimentari dei romani desumibili dall’archeologia – le fonti letterarie, al contrario, non sono rappresentative che dell’élite e indugiano spesso nell’esagerazione come il ricettario di Apicio – è il filo conduttore di un’esposizione che promuove anche le sperimentazioni: dall’esame delle lische individuate in una sessantina di vasi provenienti dal Lazio, Djaoui e l’esperto di ittiologia Gaël Piquès, ricostruiscono in un video la preparazione del garum e di altre salse di pesce.
Non senza aver risolto ulteriori rompicapi – il geniale curatore ha scoperto che il termine laccatum tramandatoci dall’epigrafia anforaria non identifica un vino colorato o una bevanda a base di latte bensì è una «sigla» per indicare una conserva di sgombri maturi – la rassegna si conclude con spazzolini da denti, forchette in metallo e bicchieri di plastica. Sono i souvenir di una vecchia performance dell’artista Daniel Spoerri intitolata Déjeuner sous l’herbe. Nel 1983, Spoerri predispone un pranzo con un centinaio di convitati in un parco della periferia parigina. A metà del pasto, tavoli, posate e cibi finiscono in una trincea.

VENTISETTE ANNI DOPO, sarà l’archeologo Jean-Paul Demoule – in collaborazione con l’istituto nazionale di archeologia preventiva (Inrap) – a riesumarli con uno scavo dagli «strani» risultati. Mentre infatti alcuni partecipanti all’happening ricordano di aver mangiato in preziose porcellane, dalla terra riemergono solo paccottiglie.
Il messaggio è chiaro: l’archeologia non è una scienza esatta e per avvicinarsi alla verità storica è indispensabile analizzare criticamente l’insieme delle testimonianze. A questa originale e stimolante mostra, che sarebbe utile replicare altrove, fa eco un ottimo catalogo curato dallo stesso Djaoui e edito dai musei di Marsiglia.