Li Yinhe, una famosa sociologa e sessuologa cinese, ha scritto che «in Cina, il femminismo è sempre stato demonizzato», aggiungendo che molte donne cinesi, perfino se scrittrici o artiste, anche una volta giunte all’estero, tendono a sottolineare il proprio status di «brava moglie» e «madre», sempre «al proprio posto».

La cultura cinese ha forti tradizioni e radici contadine, e ha quasi sempre privilegiato, nel corso dei secoli, l’uomo alla donna. E in Cina, pur tenendo conto dei cambiamenti epocali – dal 2011 la maggioranza della popolazione è urbana – certe radici sembrano rimanere ben salde nella loro profondità culturale. Per le donne, dunque, è cambiato poco, nonostante la presa di posizione perfino di Mao Zedong, che negli anni Cinquanta le definì «l’altra metà del cielo».

Se, in più, questa femminilità contro cui alla fin fine non si può niente, si associa ad attività di natura politica, il guaio è dietro l’angolo. Così cinque ragazze, l’8 marzo scorso, sono state arrestate perché hanno volantinato in favore della parità sessuale. Sono state fermate e imprigionate. E ieri incriminate.

Secondo il loro avvocato rischiano tre anni di carcere, per «disturbo della quiete sociale». Ennesima «stretta» operata da un Partito sempre più sotto il giogo del suo numero uno.

Ma Xi Jinping al momento non è, al contrario, ad esempio, di Putin, un nemico dell’Occidente. E può quindi operare in tutta tranquillità in favore del vero e proprio incubo del Partito, il «wei wen»: il «mantenimento della stabilità».