Israele tace e, dietro le quinte della diplomazia, prepara la sua reazione. L’Autorità nazionale palestinese invece festeggia le prese di posizione di sei paesi europei, Italia inclusa, che hanno ammonito i loro cittadini, in particolare gli imprenditori, dal realizzare affari negli insediamenti colonici costruiti in violazione delle leggi internazionali nei territori palestinesi e siriani occupati da Israele nel 1967. Per il ministero degli esteri dell’Anp, gli avvertimenti sono coerenti con la posizione di lunga data dell’Unione europea sulla questione degli insediamenti colonici, in linea con le interpretazioni delle Nazioni Unite della legge internazionale che afferma «il diritto inalienabile del popolo palestinese all’autodeterminazione». «La potenza occupante (Israele) – sottolinea l’Anp – si è mostrata riluttante a fermare la costruzione delle colonie e gli annunci giunti dall’Europa sono importanti per evitare la complicità nelle violazioni israeliane del diritto internazionale». Il governo palestinese si aspetta ora che i paesi europei facciano i passi successivi, vietando l’importazione e la distribuzione nel mercato comune di merci provenienti dalle colonie, quindi prodotte nei territori palestinesi e commercializzate con il marchio “Made in Israele”.

Quanto l’Europa sia pronta ad andare più in avanti nell’applicazione delle sue direttive, è difficile valutarlo. Le pressioni israeliane sono forti e ampie sono le differenze da paese a paese nei confronti della questione palestinese e della colonizzazione di Gerusalemme Est, Cisgiordania, Gaza e delle alture del Golan. Accanto a paesi pronti, almeno in apparenza, a sanzionare le politiche israeliane nei Territori occupati, altri, specie nell’Est europeo, si mostrano indifferenti e in sede Ue si comportano come difensori d’ufficio di Israele. Fratture apparse evidenti anche negli ultimi giorni quando accanto alle espressioni di solidarietà alle famiglie dei tre ragazzi ebrei scomparsi il 12 giugno mentre facevano l’autostop nei pressi della colonia di Allon Shvut, in Cisgiordania – Eyal Yifrah, Gil-Ad Shaer and Naftali Fraenkel -, e con ogni probabilità rapiti, sono mancate le condanne del pugno di ferro usato dall’esercito israeliano che, denunciano i palestinesi, più che cercare i giovani rapiti ha voluto infliggere una punizione collettiva all’intera popolazione. Ieri altri 18 palestinesi sono stati fermati dalle forze armate israeliane e vanno ad aggiungersi agli oltre 500 già incarcerati nelle ultime due settimane di operazioni militari nella regione di Hebron e in altre zone della Cisgiordania. Altri sei palestinesi sono stati uccisi, tra i quali due adolescenti, e decine feriti durante raid dei soldati in villaggi e campi profughi.

Un quadro grave che ha fatto scendere in campo l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per diritti umani, che si è detto allarmato dalla repressione e dalle vittime provocate dalle operazioni israeliane. «Siamo allarmati per le perdite di vite e per il forte aumento delle tensioni nella Cisgiordania occupata, in particolare a Hebron e dintorni, in seguito alle operazioni israeliane», ha dichiarato a Ginevra un portavoce dell’Alto Commissariato. «Lanciamo un appello per inchieste rapide ed esaustive …nei casi in cui si è verificato un eccessivo uso della forza (contro i civili palestinesi)», ha aggiunto il portavoce.