Non è raro che il peso della storia finisca per entrare in modo ingombrante nella vita di piccole cittadine. Braunau Am Inn è un piccolo comune austriaco che pochi conoscerebbero se non avesse dato i natali ad Adolf Hitler.

La casa del fuhrer nazista nel corso degli anni è stata più volte oggetto di dibattito pubblico rispetto al suo utilizzo e oggi, divenuta meta di visite guidate di studio, di fronte all’indirizzo di Salzburger Vorstadt 15 poggia una pietra memoriale che scolpisce le parole «Pace, Libertà, Democrazia. Mai più fascismo. Milioni di morti ricordano».

Predappio dal 1957 (anno in cui il governo presieduto da Adone Zoli consegnò la salma di Mussolini alla famiglia per la sepoltura) è invece luogo di manifestazioni fasciste, adunate nostalgiche della «marcia su Roma» o celebrazioni dei giorni di nascita e morte di chi si ritiene «orfano» del duce, delle leggi razziali, delle guerre d’aggressione e della repressione politica e sociale del ventennio mussoliniano.

In un paese sito nel cuore della «regione rossa», in cui il consiglio comunale è da sempre governato dalla sinistra, tutto ciò si è verificato per sessant’anni nella più totale e consueta «anormalità storica» tipica del costume italiano. Così la notizia del progetto di costruzione di un museo del fascismo da realizzare per il 2019 (peraltro centenario della fondazione dei fasci di combattimento di Mussolini) assume un carattere e un significato paradossale che superano anche la volontà del sindaco e delle istituzioni locali di costruire, in buona fede, un luogo di studio della dittatura italiana.

In epoca di «narrazioni condivise» e promulgazioni di leggi sulla memoria, la tendenza a fare del museo nella città natale di Mussolini un luogo dove «storicizzare» il ventennio, secondo la retorica che espunta dal contesto degli studi di Renzo De Felice divenne una formula cara alla trasformazione in post-fascisti degli eredi di Salò, si configura già come un inevitabile piano inclinato. Palmiro Togliatti nelle sue «Lezioni sul fascismo» invitava alla comprensione analitica di cosa era stato il regime, quali erano state le peculiarità italiane; le vicende storico-nazionali; i conflitti e i rapporti di forza tra le classi che avevano concorso all’ascesa del regime, alla sua durata e al suo consenso. Se il fascismo riuscì a ergersi al potere come «regime della menzogna» – secondo la celebre formula di Piero Calamandrei – è pur vero che l’«autobiografia della nazione» rappresentata da Gobetti più di altre immagini evoca lo spettro mai del tutto esorcizzato del ritorno a quello spirito primordiale. Un museo del fascismo avrebbe il compito di trasformarsi in un luogo in cui poter fare e chiudere i conti con quel «passato che non passa» e trasformarsi in un luogo di studio, ricerca e cultura democratica e antifascista. Ma l’immagine dei gadget mussoliniani sulle bancarelle nelle strade di Predappio o le sessantennali sfilate dei neofascisti italiani ed europei non sembrano un buon viatico. Così non ci abbandona l’idea fastidiosa che, posta all’ingresso del museo, una targa come quella piantata a Braunau Am Inn durerebbe, forse, lo spazio di un mattino.