Segnate da un destino bellico comune fino all’8 settembre 1943 e poi diviso da lì al termine della guerra, l’Italia e la Repubblica Federale Tedesca si trovarono ad affrontare, nei loro peculiari status di nazioni sconfitte, il tornante degli anni 1968-1980.
Lo fecero entro un quadro caratterizzato dalla transizione alla democrazia, da laceranti conti da compiere col passato e infine da forme di radicalizzazione del conflitto politico-sociale negli anni settanta che portarono non solo alla manifestazione di spinte «emergenziali», sul piano della legislazione, ma alla composizione di paradigmi politico-culturali che segnarono la struttura istituzionale nel campo della prevenzione, del controllo e della repressione dei fenomeni considerati «sovversivi».

UNO STUDIO COMPARATIVO efficace tra il caso tedesco e quello italiano ci è ora fornito dal volume di Laura Di Fabio Due democrazie, una sorveglianza comune. Italia e Rft nella lotta al terrorismo interno e internazionale 1967-1986 (Mondadori-Le Monnier, pp. 228, euro 17) in cui la giovane storica estrae dall’analisi di documenti d’archivio italiani e tedeschi un impianto interpretativo metodologicamente convincente e storicamente fondato.
Il libro non si limita a restituire la «cifra» storico-politica dei conflitti del «lungo ’68» né scivola sul semplicistico crinale recriminatorio di denuncia della repressione contro i movimenti. Introduce invece categorie interpretative che pongono in evidenza i meccanismi della moderna resignificazione degli avversari, dei nemici, del pericolo per la sicurezza dello Stato. Elementi che esprimono in modo sintomatico, seppur non automaticamente assimilabile, la radice d’origine della grammatica politica della nostra contemporaneità.
Di Fabio, che si è specializzata nel corso degli anni nelle università di Roma, Lipsia e Treviri, contestualizza nella cornice della Guerra Fredda le evoluzioni storiche che determinarono le principali differenze dei due sistemi istituzionali di fronte all’emergere dei movimenti sociali di fine anni sessanta e di quelli armati della fase successiva.

IL LIBRO PROCEDE alla comparazione italo-tedesca «per contrasto», piuttosto che per similitudini, e per questo offre una resa di complessità che consente la comprensione di un tema che nella sfera pubblica è tanto dibattuto quanto scarsamente inteso nella sua profondità, limitato dai campi duali garantisti contro giustizialisti o fautori della ragion di Stato contro esegeti della ribellione.
Di Fabio si sottrae all’abbraccio esiziale di questa dinamica e nello stesso tempo, sostanziata da una documentazione consistente e innovativa, non rinuncia ad esprimere, con chiarezza e solide ragioni interpretative, la sua lettura d’insieme del fenomeno.
Così le leggi speciali sull’ordine pubblico promulgate in Germania nel giugno 1968 dal primo governo di Grosse Koalition segnano da un lato una limitazione di fatto delle libertà fondamentali dei cittadini e dall’altra si propongono la sedimentazione di una prassi di costituzionalizzazione anti-totalitaria (ovvero anticomunista e antifascista) funzionale allo sblocco del sistema politico dell’alternanza e a un processo d’integrazione organica del movimento operaio nel quadro del sistema economico capitalista. Da qui discende la seconda fase emergenziale tedesca (1969- 1972) promossa, non a caso, dal cancelliere socialdemocratico Willy Brandt e calata da un lato nel contesto estero della Ostpolitik e dall’altro in quello interno della contestazione studentesca.

IN ITALIA, LE CONDIZIONI si presentano molto diverse e Di Fabio individua i punti di rottura che differiscono il quadro nazionale del nostro paese da quello della Germania, primi fra tutti il protagonismo del movimento operaio (oggetto di un’integrazione negativa e vissuto sistemicamente come «nemico interno» in chiave anticomunista) e poi l’anomalia terroristica dello stragismo che iniziata a Piazza Fontana il 12 dicembre 1969 si protrasse per oltre un decennio accompagnando movimenti di natura eversiva e golpista e rappresentando un unicum nell’Europa occidentale.

TUTTAVIA L’EMERGERE di una legislazione speciale sull’ordine pubblico in Italia non matura all’interno di una contrapposizione frontale tra ordinamento costituzionale e spinte eversive di carattere autoritario, che ebbero in larga parte una natura e una matrice d’origine interna ai corpi di sicurezza dello Stato, ma al contrario si definisce attorno alla nozione di controllo dei movimenti politici e sociali della sinistra storica e della sinistra extraparlamentare.
Il 1974 segnò in questo senso un primo tentativo d’inversione di tendenza, sotto la spinta di drammatici eventi come la strage di Piazza della Loggia a Brescia del 28 maggio e del treno Italicus del 4 agosto, con lo scioglimento formale dell’Ufficio Affari Riservati guidato da Federico Umberto D’Amato e quello dei gruppi neofascisti come Ordine Nuovo prima e Avanguardia Nazionale poi.
Entro quest’arco temporale viene promossa la legislazione d’emergenza sull’ordine pubblico che scandisce modi e tempi dell’avvicinamento del Pci al governo, con i comunisti contrari alla «Legge Reale» nel 1975 e poi schierati su posizioni «d’ordine» contro la sua abolizione nel referendum del 1978 promosso dal partito radicale.

I DIVERSI TENTATIVI di riforma e riorganizzazione degli apparati di sicurezza nazionali, che caratterizzarono gli anni dal 1974 al 1981, non riuscirono a rompere la «duplice discordanza democratica» italiana determinata da un lato dalla continuità di uomini e prassi di controllo politico derivanti dalla struttura statale ereditata dal fascismo e dall’altro la determinazione geopolitica anticomunista che poneva gli organi di sicurezza del paese nella peculiare condizione di considerare larga parte dell’opposizione parlamentare e costituzionale come un problema di ordine militare, secondo una logica concettuale espressa in modo esplicito dal generale Mario Arpino, capo di Stato Maggiore delle Forze Armate, che in commissione stragi alla fine degli anni novanta affermò in modo non equivocabile: «Piaccia o non piaccia, ancora negli anni ottanta, per noi (militari) un terzo del Parlamento italiano (il Pci) era il nemico».
Nella parte conclusiva della sua ricerca Di Fabio coglie nella cooperazione antiterrorismo italo-tedesca degli anni ottanta il nesso che prefigura una misura sempre più transnazionale e delocalizzata dei concetti di sorveglianza, monitoraggio e uso della forza da parte degli Stati in epoca multipolare, preconizzando nuovi modelli e forme di gestione degli spazi e delle categorie del controllo che investono direttamente, in modo critico e contraddittorio, la relazione tra uso del monopolio della forza, «disciplinamento» delle istanze sociali a tutela dell’ordine costituito e società contemporanea.

È ALL’INTERNO di questa dimensione della modernità che sembra estrinsecarsi in modo manifesto la contraddizione principale del conflitto tra libertà e individuali e collettive da un lato e garanzia della «libertà dalla paura» dall’altro.
In questo quadro duale rappresentato da Di Fabio, il riferimento a Norberto Bobbio secondo cui «tutte le azioni relative al diritto di altri uomini, la cui massima non è suscettibile di pubblicità, sono ingiuste» si incontra e confligge con l’idea che la pubblicità delle azioni di controllo renderebbe queste ultime «di impossibile attuazione», richiamando – scrive la studiosa – da un lato la fragilità dello Stato e dall’altro il «trasformismo resiliente delle istituzioni statali che detengono il monopolio legittimo della forza».