Nessuna sorpresa, ieri alla camera la commissione ha chiuso il lavoro in tarda mattinata, l’aula ha esaurito la discussione generale in un pomeriggio e alla sera il governo ha posto la questione di fiducia. La legge di bilancio anche quest’anno è una formalità. Montecitorio l’approverà definitivamente domani, senza spostare una virgola del testo del senato.

Nessuno e nessuna, intervenendo in aula, ha trascurato di criticare il modo in cui la legge di bilancio (non) è stata esaminata dal parlamento. Stessi toni, allarmati per il destino del parlamento, sia che intervenisse la maggioranza sia che intervenisse l’opposizione. Si sono anzi potuti cogliere, dall’una e dall’altra parte, accenti preoccupati per il prossimo taglio dei parlamentari che, si prevede, peggiorerà la sottomissione delle camere al governo. Lo pensa oggi soprattutto chi ieri è stato a favore del taglio. Unica attenuante per gli allarmi è stata la generale considerazione che «non è la prima volta», anzi «ormai è prassi» che la legge di bilancio sia esaminata da un solo ramo del parlamento (quest’anno il senato) e blindata con la fiducia nell’altro. Anche se non è esattamente così.

È solo negli ultimi tre anni, infatti, che il monocameralismo si è affermato come metodo di elezione per l’approvazione della manovra di bilancio. Fino al 2018 – la prima prova di questa legislatura – è stata salvaguardata la possibilità per la seconda camera di intervenire sul testo. Anche se le modifiche hanno preso la forma del maxiemendamento del governo. Ed era andata così, tre letture e non solo due per approvare la legge, tutti gli anni della precedente legislatura dal 2013 al 2017. Con la sola eccezione del 2016 ma solo perché il 4 dicembre di quell’anno fu clamorosamente bocciata nel referendum popolare la riforma costituzionale di Renzi. Fu improvvisamente chiaro che il governo era finito, così tre giorni dopo la pratica del bilancio fu chiusa per non rischiare l’esercizio provvisorio. A sette anni fa, sessione di bilancio 2014, risale invece l’ultima volta in cui un ramo del parlamento (la camera) ha fatto passare il bilancio senza che il governo ponesse la questione di fiducia.

Ma la vera differenza, se si guardano i precedenti di questa e della scorsa legislatura, sta nei tempi che il governo ha lasciato al parlamento per discutere effettivamente la legge più importante dell’anno. Tempi che dipendono in parte dal rispetto delle scadenze nella presentazione del disegno di legge governativo, sempre arrivato entro ottobre nella precedente legislatura (al più presto il 23 ottobre, al più tardi il 29) e mai in questa legislatura (al più presto il 1 novembre, al più tardi il 18). Non solo. Nella precedente legislatura la discussione del provvedimento in commissione è cominciata pochi giorni dopo il deposito del testo, dando così tre settimane di tempo per l’esame in referente in prima lettura e fino a due settimane anche in seconda lettura. Deputati e senatori potevano, cioè, effettivamente ancora discutere i loro emendamenti.

Tutto è cambiato in questa legislatura. Nel 2018 sono passati 26 giorni tra il deposito della legge di bilancio e l’inizio effettivo dell’esame in commissione, nel 2019 sono passati 38 giorni, di nuovo 26 giorni nel 2020 e 39 giorni quest’anno. In questo modo le inevitabili mediazioni nella maggioranza e qualche trattativa con le opposizioni si sono regolarmente svolte lontano dalla commissione. La sessione di bilancio è diventata così per i parlamentari una sessione di lunghe attese vuote e poi di forsennate corse, in genere notturne e comunque di poche ore. Se è da anni che va così, quest’anno è andata peggio.