Era appena finito l’anno degli studenti, nel quale tuttavia gli operai non se ne erano affatto stati a guardare. Quello fu l’anno degli operai, nel quale gli studenti giocarono però una parte per nulla secondaria. Del primo, nei cinque decenni successivi, si è parlato sin troppo. Del secondo non ancora abbastanza e quasi mai con gli strumenti degli storici invece che con quelli della pubblicistica o della memorialistica. Rimediano in parte due volumi arrivati di fresco in libreria, entrambi della manifestolibri. L’autunno operaio, di Giuseppe Maione (pp. 288, euro 20.00), compete con chances di vittoria per il titolo di miglior testo storico sul 1969, l’anno che cambiò l’Italia più di ogni altro. Quando gli operai volevano tutto, curato da Marco Grispigni (pp. 144, euro 15.00), raccoglie nove agili saggi e offre un’introduzione per chi iniziasse ad addentrarsi nella ricostruzione di quell’anno destinato a segnare per intero il decennio successivo.

NON CI SI FACCIA INGANNARE dal titolo «stagionale»: l’importanza del libro di Maione, centrato sulle tre situazioni di punta della Fiat, della Pirelli e del Petrolchimico di Porto Marghera, sta in buona parte proprio nel non centrare l’attenzione solo su quello che è passato alla storia come «l’autunno caldo», per inquadrarlo invece nel lungo ciclo precedente, nello specifico modello di relazioni industriali sul quale si era fondato il boom degli anni ’50 e ’60. Ma anche per esaminarne le conseguenze a lungo termine sulla politica industriale e sullo sviluppo di questo Paese, che secondo l’autore incidono a tutt’oggi, mezzo secolo più tardi.

LA RIVOLTA, nonostante fosse iniziata già nel ’68, arrivò inaspettata, colse tutti di sorpresa, trovò il suo epicentro dove la si attendeva e temeva di meno: alla Fiat. Come l’esplosione potesse risultare così imprevista e sorprendente è un quesito di per sé eloquente. Lo sviluppo impetuoso del decennio precedente era stato permesso non solo dal bassissimo costo della forza-lavoro, ma da un impasto di modernizzazione taylorista e di arcaismo: i calcoli ingegneristici applicati ai tempi di produzione si sposavano con un comando brutale affidato all’onnipotenza e alla prepotenza dei capi. L’avvelenamento, soprattutto nel settore chimico, era letale. L’anno degli operai fu un’insurrezione contro i ritmi massacranti, la disciplina da Stato di polizia costruita da Valletta, la nocività incontrollata, le paghe da fame.

Quella rabbia troppo a lungo repressa incontrò gli studenti, o più precisamente i giovani militanti rivoluzionari provenienti dalle università del ’68. Spiazzò e all’inizio quasi travolse il Movimento operaio istituzionale, la cui reazione fu però molto più complessa e sfumata di quanto non si ritenga di solito. Uno dei meriti del lavoro di Maione è sottrarsi alle due agiografie, quella «rivoluzionaria» e quella sindacale, che ipotecano da sempre l’interpretazione di quell’anno cruciale. Al proposito, l’autore conia una definizione, che lui stesso sottolinea essere un apparente ossimoro: «spontaneismo del Pci». Maione dimostra che il partito di Longo tentò di assumere come propria la spinta dal basso che proveniva dalle lotte autonome delle fabbriche, stabilì una relazione che non era affatto solo di rifiuto con lo spontaneismo, e proprio per questo perse ogni possibilità di affermare la strategia sulla quale aveva puntato sino a quel momento, quella, con lo slogan di allora, delle «riforme di struttura».

IL VOLUME curato da Grispigni ha ambizioni diverse: restituire un quadro meno approfondito ma più vasto del ’69 operaio a una platea che non conosce o conosce solo superficialmente la materia. Vengono quindi chiariti due equivoci: il carattere quasi esclusivamente italiano di un ciclo di lotte operaie che fu invece internazionale, anche se l’Italia ne fu la prima linea, e il rapporto con il ’68. Mettere in contrapposizione la rivolta degli studenti e quella degli operai, dimostra Grispigni, non è solo insensato ma è anche mistificatorio. La maggior parte dei saggi insiste però, né potrebbe essere diversamente, sugli stessi temi e sulle stesse situazioni che sono al centro della ricostruzione di Maione, la ripresa improvvisa della conflittualità operaia, la dialettica tra spontaneità e sindacato, il ruolo degli studenti e dei nascenti gruppi rivoluzionari, allargando però il quadro alla dimensione internazionale, alla specifica mobilitazione delle operaie, all’epilogo sanguinoso segnato dalla strage di piazza Fontana.

La rivolta nacque contro le condizioni materiali che rendevano infernale la vita degli operai italiani. Rase al suolo il sistema di controllo vallettiano, portò in primo piano la lotta contro la nocività sul lavoro, mise alle corde un modello di sviluppo che si voleva futuribile ma adoperava la formula più antica del mondo: maestranze sottopagate. A partire di lì si mise in moto un movimento tale da modificare, nel corso del decennio successivo, tutto, inclusi i valori e la percezione della realtà. In un’epoca in cui i movimenti «etici» sembrano il solo orizzonte possibile potrebbe essere un insegnamento utile.