Decima edizione di Animaphix – Nuovi Linguaggi Contemporanei Film Festival, conclusa a Bagheria (PA) domenica 28 luglio che si è conclusa con i premi assegnati da una giuria era composta dai registi Wiola Sowa, Isabel Herguera e Théodore Ushev. A quest’ultimo, pluripremiato animatore bulgaro con base ora a Montreal dove lavora da tempo con il National film board of Canada (ONF/NFB), il festival siciliano ha dedicato mostra e retrospettiva. Nato nel 1968 a Kyustendil, fra gli altri è insignito del titolo di Cavaliere dell’Ordine delle Arti e delle Lettere di Francia.

Puoi essere considerato un’artista cult o autore?
Sono solo un normale essere umano che evidentemente ha avuto la possibilità di fare arte e di essere in grado di curare i suoi demoni esprimendo la propria inquietudine attraverso film e immagini.

In quale modo il tuo lavoro cinematografico si relaziona alla musica?
Inizia e finisce con la musica. Specialmente con la musica dei «grandi emarginati», compositori e musicisti che non sono mai andati mainstream, come spero di essere da artista e cineasta. Un brano musicale ha sempre una costruzione «architettonica». Mi aiuta molto, ricostruirci sopra con tristezze e paure, lacrime e sudore.

Affronti argomenti seri in film quali «Lipsett Diaries». Quali temi ti motivano per l’animazione?
Lipsett diaries scaturisce da coincidenze e mie stesse riflessioni sul mondo in cui viviamo. Esattamente come a Lipsett, con Chris Robinson (lo sceneggiatore del film) ci siamo trovati in un periodo di tempo in cui la confusione e la turbolenza erano simili alla vita di Arthur Lipsett. La depressione e la paura di non riuscire nella vita sono sentimenti umani molto normali – si trattava solo di abbracciarli, come abbiamo fatto realizzando questo film.

C’è anche molta ricerca estetica e stilistica nelle tue opere. Quali ispirazioni e influenze muovono la tua creatività? Da dove vieni e dove stai andando?
Provengo dall’apprezzamento per i grandi movimentti di avanguardia del 20° secolo. Soprattutto quelli nati dalle grandi idee politiche, o che erano contro gli stati totalitari. La mia arte è influenzata dalle «menti disturbate», da artisti che erano politicamente attivi. Per me l’arte non è un set decorativo, è un «grido» contro l’ingiustizia, la povertà, la follia, le guerre, le questioni sociali. Per esempio, io non vendo mai le mie opere d’arte perché rifiuto che i miei dipinti, disegni, oggetti siano appesi alle pareti dei privilegiati e degli uomini di potere. Preferisco donarli alle persone che non hanno denaro per comprare arte o a musei periferici dove possano essere viste da persone che non sono coinvolte nelle arti.

Lo status dell’arte come investimento o proprietà mi fa infuriare. Non tratto mai con gallerie private, mercanti o critici al servizio del mondo dell’arte odierno falso e corrotto. Ecco dove sono: dipingo, realizzo i miei film, non mi metto al servizio di gusti o commissioni. Questo mi rende un artista libero, che può giocare con stili, forme, idee ma soprattutto con messaggi e affermazioni. Nessuno può comprarmi!

Sei sempre consapevole di quello che stai esprimendo in fase di creazione o a volte «flusso di coscienza» e sequenze di immagini impressionistiche prendono il sopravvento (come, ad esempio, in «Third page from the sun»)?
Non sempre, ma ogni tanto amo perdermi nel labirinto del «flusso di coscienza». In effetti sono i miei film preferiti: i film espressionisti che costruisco dalla necessità di «rompere l’immagine», l’intera idea del cinema come forma di narrazione.
Cinema non è solo raccontare storie – cinema è creare emozioni, colpendo nello stomaco e creando una relazione atmosferica fra cervello e cuore. Ecco perché i miei film non sono considerati «sperimentali» (quanto odio questa parola!!!), o narrativi. Qualcuno ha usato il termine «cold wave» (onda fredda) per descrivere ciò che faccio. Onda fredda come reminiscenza di «guerra fredda» è un’ottima spiegazione per l’arte che creo. Mi piace la complicità nell’arte, in ogni forma. Citazioni, giochi, trucchi, battute e tutto ciò che passa per l’homo ludens.

Più recentemente hai usato la realtà virtuale. Come ti ci sei misurato? Quanto hai mantenuto e quanto hai cambiato del tuo modo di lavorare? Cosa si perde e cosa si aggiunge con la realtà virtuale?
L’ho usato solo perché funzionava perfettamente con la storia del mio film Blind Vaysha. Il concetto del film si adatta in modo perfetto al mezzo, quindi l’ho usato. La storia di una ragazza, cieca perché i suoi due occhi vedono il mondo in modo differente (l’occhio sinistro vede solo il futuro, quello destro solo il passato), era giusta per questo strumento tecnologico. Molto spesso utilizzo nuove tecnologie per i miei film, quando servono la mia idea o il mio messaggio. È stato il caso dei miei film stereoscopici, con la realtà virtuale e, più recentemente, con l’intelligenza artificiale e i disegni procedurali nel mio film più recente The Wolf (che debutta al Toronto Film Festival, ndr).

Che tipo di coerenza artistica mantieni nella tua esplorazione in altri media e linguaggi?
Coerenza non è una parola che descrive bene le mie opere d’arte. Sono esercizi polimorfici di «incoerenza».

La tua ultima uscita su schermo è il lungometraggio fantascientifico «Phi 1.618» di due anni fa, unico tuo lungo ad oggi, a parte il ruolo di capo animatore nel film Magic mountain di Anca Damian. Come cambia il tuo lavoro dal corto al lungo?
Era l’unico mezzo che non avevo provato e, con mia sorpresa, mi è piaciuto molto farlo. Quindi ora sto preparando il mio secondo lungometraggio dal vero.

Riassumendo, quali sono i film in cantiere?
Il menzionato live action Idling, dove Chris Robinson e io c’incontriamo di nuovo sul campo di battaglia culturale. Sto anche terminando il mio corto animato A life with an idiot, basato sull’omonimo romanzo dello scrittore russo Victor Erofeev, ora in esilio a Berlino. Questo sorprenderà tutti, perché penso sia un vero film punk, e li getterà in profondi pensieri sul mio stato mentale.