A differenza del nostro Paese, in Irlanda il genere del racconto breve gode di grande fortuna, sia editoriale che di pubblico. Le ragioni sono probabilmente da ricercarsi nel suo configurarsi come una sorte di «ponte» tra oralità e scrittura codificata. I tempi del racconto, infatti, e non quelli del romanzo, si adattano di più allo storytelling tradizionale; e in Irlanda se ne è nei secoli sviluppata una vera e propria arte, quella appunto dei cantastorie tradizionali, gli seanchaí. Queste figure legate a una cultura rimasta a lungo prettamente orale, hanno lasciato il segno anche nella produzione letteraria moderna. Col genere si sono confrontati grandissimi scrittori, da Joyce a Yeats, da Beckett a Behan. Questo fino ad arrivare ai giorni nostri, che ci consegnano autori e autrici di grande interesse, e in grado di comprimere storie, personaggi e atmosfere, in poche pagine, efficaci e caustiche.

È IL CASO DI WENDY ERSKINE, la cui raccolta Dolce casa (Atlantide, pp. 224, euro 24, traduzione di Federica Bigotti) si inserisce a pieno in questo filone che vanta vette assolute quali Gente di Dublino di Joyce. I racconti della Erskine, scrittrice nordirlandese classe 1968, sono ambientati a Belfast Est, zona principalmente protestante della città. L’unica area «cattolico-nazionalista» è Short Strand, che è stata spesso palcoscenico di tensioni, anche recenti. La parte orientale di Belfast non è troppo presente nell’immaginario letterario, né è conosciuta dai turisti, probabilmente per l’atmosfera portuale e tardo industriale che vi si respira. Un’atmosfera ben colta dalla Erskine in tutte le sue contraddizioni, anche quelle più stridenti. Alcune storie della raccolta, infatti, sorprendono per la capacità dell’autrice di mostrarsi al contempo una grande osservatrice, addentro alle vicende finzionali di cui ci parla, e di produrre ritratti tersi e lucidi: vere e proprie analisi di una morfologia cittadina.

LA STORIA D’ESORDIO, «A ciascuno il suo», è un mosaico perfetto in cui si ricompongono, grazie a tre punti di vista, esistenze distanti ma affini: con squarci di squallore umano e di violenza, ma anche di speranza e di riscatto attraverso la gentilezza, o quella virtù che Orwell chiamerebbe la decency. Il collante di un eloquio asciutto e mai sentimentale sono i dialoghi, non segnalati graficamente, come avviene sempre più spesso negli scrittori irlandesi e non solo. Battute secche, dirette, non tergiversanti, che rivelano l’anima segreta dei personaggi con pochissimi tratti di penna.

«STATI ARABI: mente e narrazione» è invece un esempio di come anche la vita domestica più ordinaria possa aprirsi allo straordinario. Questo avviene attraverso una tensione che in altri tempi avremmo definito orientalista, e che è invece, adesso, la via per ottenere una valvola di sfogo, sebbene non sempre con esiti auspicabili e felici. Echi orientali presenti anche nel racconto «Inakeen», che esplora, rivisitandolo dal di dentro, il tema della famiglia (disfunzionale o meno che sia), tanto caro alla letteratura irlandese del 900 e ora precariamente esposto all’alterità e allo «straniero in casa propria».

Quello che colpisce di molti di questi racconti è il candore, il pudore con cui si sfiorano soltanto quei temi che hanno reso famosa Belfast – il conflitto, principalmente, con tutti i suoi orrori – lasciandoli non sullo sfondo, ma dipingendoli come alone diffuso: una ineluttabile realtà con cui però, nel tempo, ci si abitua a fare i conti. Giornalmente, a fatica, ma senza rassegnazione. Il lettore è poi invitato dall’autrice a un sottile gioco tra finzione e realtà, nel racconto «77 curiosità che non conoscevate su Gil Courtenay»; ma su questo meglio non svelare altro.

LE DIECI SHORT-STORY ci consegnano una scrittrice che non spreca le parole, consapevole che il contenitore prescelto non lo consente. Sono in realtà dieci romanzi condensati, ma non nel senso del riassunto. La narrazione è a tratti anche ineffabile, allusiva, non fattuale. Eppure, il lettore non si perde mai, perché a vincere è la capacità di rendere il normale anormale, e di tracciare del noto un profilo inatteso. Le frustrazioni e le piccole violenze di tutti i giorni nascondono una capacità di comprenderle, ma sempre in relazione al contesto. Erskine non cede mai alla tentazione di allentare la presa sul reale in maniera consolatoria. Al contrario, punta su personaggi non fragili di per sé, ma resi vulnerabili dal sistema. Un sistema che è esso stesso fragile, e la cui rappresentazione ottimale non può se non passare attraverso le lenti, al contempo nitide e sfocate, di un narrato non fotografico, ma dotato della profondità delle migliori fotografie.