«C’è qualcuno seduto all’ombra oggi perché qualcun altro ha piantato un albero molto tempo fa», ha detto un tempo Warren Buffett, economista e filantropo. L’immagine potrebbe tornare utile anche ragionando sulla musica, e in particolare sulle note che hanno saputo muoversi con intelligente ambiguità tra forme d’arte e forme esplicitamente «popular», più vicine alle logiche di mercato. Per riprendere la frase iniziale, non è detto che chi di mestiere e d’indole pianti metaforici alberi giovani nel terreno delle note a rischio inaridimento poi possa, egli stesso, godersi un meritato riposo all’ombra. Lo faranno altri. Spesso non va proprio così. Normalmente ci si mette di mezzo il destino, che ti leva il problema in quattro e quattr’otto, sollevandoti di peso dal pianeta.
Pensate a Frank Zappa. A Duane Allman, a John Coltrane. O a Miles Davis, che, certo, ha fatto in tempo a godersi diversi fondali ombrosi, ma sicuramente per decenni s’è visto rifiutare o proprio non considerare il rigoglio imponente di una delle sue più belle e fronzute creature musicali, On the Corner. Disco odiato quant’altri mai e, allo stesso modo, oggi capace di rinfrescare in un’ombra confortante diverse generazioni di musicisti che sanno riconoscere i propri padri.

LUOGHI COMUNI
On the Corner, uscito sul mercato per la Columbia l’11 ottobre del 1972 compie cinquant’anni, mezzo secolo che ha lavorato ai fianchi, per nostra fortuna, una bella accolita di luoghi comuni che avevano stigmatizzato il Miles «brutto, cattivo e commerciale» dei suoi acidissimi dischi elettrici, a partire dall’accoppiata speculare a fine ’60 In A Silent Way/Bitches Brew.
On the Corner, però, ha mantenuto assai più lungo lo stigma di disco «maledetto», costruito a tavolino «per qualche dollaro in più», a intercettare le tasche del pubblico rock, secondo la critica più imbolsita e retriva attaccata al Miles apollineo dei dischi «cool». Il tempo invecchia in fretta, diceva Tabucchi, citando a sua volta gli antichi greci. Però il tempo è anche un vecchietto galantuomo, e mezzo secolo dopo possiamo finalmente accettare, nel pantheon dei dischi epocali, anche On the Corner, scoprendo in realtà che è (è stato, sarà) uno dei dischi più visionari dell’irrequieto ricercare del Dark Magus Davis negli anni ’70, conclusosi con un’autosegregazione in casa per anni e un ritorno sulle scene, nei primi ’80 nel segno, questa volta sì, di un felice compromesso creativo con le musiche black più di successo.
On the corner, invece, risulta ispido, appuntito, torvo e imprendibile ancora oggi, segno dei suoi tempi e assieme indizio di futuro. Vale la pena approfondire. Segnalando innanzitutto che il disco si sarebbe dovuto chiamare in tutt’altro modo, assai più seducente e sensuale: Black Satin, seta nera, come la seconda traccia della prima facciata. Peraltro usata per far uscire un improbabile singolo a 45 giri, sperando in un «traino» dell’intero ellepì, con assai più aggressivo titolo modificato: Molester. Miles, nel periodo che precede l’uscita di On the Corner è in uno dei molti periodi «down» della sua carriera. S’è sfaldato il settetto elettrico con Keith Jarrett che oggi consideriamo, ex post, «classico», ma nel ’71 non c’è nessuna registrazione ufficiale in studio. Miles è nervoso, inquieto, spesso frastornato dalle droghe che assume anche per cercare di contrastare i crescenti acciacchi fisici catalizzati da diversi incidenti.

«DA CONSERVATORIO»
È aggressivo e polemico: accusa la Columbia di promuovere gruppi come i Blood, Sweat & Tears per fabbricare un’immagine edulcorata, neutra e piaciona dal jazz rock che poi i neri dovranno prendere a modello, adeguandosi. Il piccolo grande deus ex machina che lo fa uscire dal pantano è però proprio un bianco, un ragazzo inglese «da conservatorio» che suona il violoncello, con una approfondita conoscenza delle avanguardie classiche e che, senza alcun problema per campare, oscilla tra la produzione e l’arrangiamento di gruppi sperimentali come la magnifica Third Ear Band e Elton John. Paul Buckmaster. Miles l’ha scoperto nel ’69, a Londra: lo invita a casa sua per sei settimane, lo tratta come un re. Buckmaster s’è portato dietro dischi di Stockhausen come Telemusik e Mixtur, stipati di sovraincisioni con effetti di sfasatura, musiche folk «trattate» con l’elettronica, enormi campiture ritmico-melodiche passate per modulatori ad anello e filtri. Musica «inaudita», per Miles, e immediato oggetto d’amore ossessivo, come la scoperta dei raga indiani modali, tessiture e ricami di miriadi di piccole variazioni sulla fluttuazione libera del tempo. Tutto ciò viaggia in un certo senso in parallelo con la musiche che si sente risuonare nel corpo e nel cervello da alcuni anni: un flusso incantatorio e sciamanico iterativo soggetto a continue microvariazioni. Strappi interni che non lacerano l’intero involucro, ma lo fanno impercettibilmente mutare ad ogni secondo. Una tessitura elettrica intricata e governata gestualmente da Miles in studio di incredibile complessità metrica, spesso su un unico accordo, ma con un labirinto di ostinati e obbligati che rinserrano e contemporaneamente «aprono» la musica.

DENTRO LA TESTA
Nella testa di Miles c’è una sorta di idea di «restituzione» alla comunità nera e urbana della musica, e l’esteriorità tutta esibita del suono elettrico fa la sua parte: ma quella musica acida, trance e dalle fortissime dinamiche e timbriche che nascondono incastri raffinatissimi non è soul, non è rhythm and blues, non è rock, non è jazz. E un’alchimia mai tentata e visionaria, non la svendita al mercato con cui gran parte della critica crede di liquidare On the Corner. La copertina per la prima volta dopo anni abbandona le ieratiche immagini afrocentriche disegnate da Mati Klarwein, e viene affidata al cartoonist Corky Mc Coy: che mette in scena appunto un «angolo metropolitano» duro e puro, ancorché mediato dai tratti arrotondati da cartoon, con spacciatori e attivisti neri (Vote Miles!), gay e prostitute. Intenzionalmente Davis sceglie anche di non mettere alcun nome dei musicisti coinvolti: che sono in pratica un’intera orchestra dell’eccellenza, con gente come Jack DeJohnette, Chick Corea, Herbie Hancock, John McLaughlin, Dave Liebman, Collin Walcott degli Oregon al sitar assieme a Khalil Balakrishna, Bennie Maupin, e via citando. Vuol dare filo da torcere all’odiata critica, e ci riuscirà. Miles la vorrebbe promossa, quella musica, come i dischi di James Brown o di Sly Stone, il risultato è che il disco lo recensiscono i critici jazz, con affermazioni di questo tenore: «Pura arroganza», «Miles ha scelto un accordo e l’ha fatto suonare per tre quarti d’ora».
Il sassofonista Stan Getz ascolta inorridito il flusso pulsante e imprendibile di On the Corner e dichiara: «Musica senza significato. Non vuol dire nulla, non c’è alcuna forma musicale, nessun contenuto, non c’è swing». Bill Coleman: «Un insulto all’intelligenza della gente». Poi, come s’è detto, è il Tempo Galantuomo che mette a posto le cose, anche perché gran parte del suono elettrico più articolato e colto della seconda metà del ’900 da lì attingerà a piene mani. E arriveranno affermazioni come queste: «Uno dei più grandi dischi del ventesimo secolo, una delle imprese più temerarie di Miles, con la sua fusione di chitarre funk, percussioni indiane, tecniche di incisione che mettono in conto dub e loop, prefigurando la cultura hip hop», «un disco frenetico e quasi punk, radicale da un punto di vista tecnologico, la cui influenza profonda deve ancora essere compresa a fondo». Nel 2007 esce il box The Complete On the Corner Sessions: sei cd, sei ore e mezza di musica «ricostruita». L’angolo di Miles è pieno di musica, mezzo secolo dopo.