«Ma come può un unico uomo amare l’umanità intera? Due sono le maniere. Una, essere un grand’uomo. Che bello, allora! Ma chi può sapere quante e quali sofferenze comporta un simile impegno? Attraverso quali tormenti si diventa un grande uomo? Esiste poi l’altra maniera, quella di amare gli uomini da avventuriero. E questo significa amare di più la vita che gli uomini»: ha osservato con molte ragioni Goffredo Fofi come la prosa di Sait Faik Abasıyanık sarebbe piaciuta a Baudelaire, a Kavafis, «ma anche a Camus e non soltanto a Cechov». A questi nomi si potrebbe aggiungere forse quello di Walter Benjamin, il quale avrebbe ritrovato nell’andatura, nello sguardo e in quello che si definisce il sentimento del mondo messo in scena dallo scrittore turco (nato ad Adapazarı il 18 novembre del 1906) un degnissimo consanguineo di Robert Walser o del Franz Hessel di Spazieren in Berlin. Dopo di che, e per tratti non secondari, serve subito segnalare un significativo stigma surrealista, laddove pare che una luce meridiana, abbagliante e appunto mediterranea, concorra a provocare una sorta di sversamento onirico e di narcosi visionaria (ad esempio, per mezzo dell’apparizione di un doppio la tramatura del testo si complica e si altera, diventa sfuggente al pari dei sogni o delle allucinazioni; lo scrittore lavora avanzando per istantanee, per fotogrammi, appena prima che le immagini finiscano «per sbiadire e farsi indistinte»).
Per il lettore non specialista, i quaranta racconti (tutti scritti in un arco temporale che va dal 1936 al 1954) ora pubblicati sotto il titolo di Un uomo inutile (traduzione di Giampiero Bellingeri e Fabrizia Vazzana, Adelphi «Fabula», pp. 263, euro 19,00) rappresentano una vera e propria scoperta e una rivelazione, sebbene in precedenza, ma pressocché clandestinamente, siano già usciti in italiano un altro libro di racconti (Con poco zucchero, A Oriente!, 2006) e una raccolta di poesie (Ora è il tempo per amarsi, Lunargento, 2020). Succinte sino a non andare oltre l’essenziale sono le notizie biografiche sull’autore: visse sempre con una madre che pare fosse possessiva e autoritaria; nei primi anni trenta si recò in Francia, per l’esattezza a Grenoble, per completare gli studi universitari di letteratura; scrisse per tutta la vita racconti per giornali e riviste e l’opera complessiva si compone di una dozzina di titoli, inclusi due romanzi e un libro di versi; la sua casa, ora trasformata in museo, era nell’isola di Burgaz.
Se poi dobbiamo dar credito di realtà a uno dei suoi racconti, Faik venne in Italia, a Napoli: «Mi trovavo a Napoli un giorno di febbraio. Vidi un bambino dal volto di una bellezza straordinaria: dormiva raggomitolato davanti a un edificio che lo riparava dal freddo del vento del nord. Poco dopo attraversai una piazza, e anche là vidi un gran numero di uomini, distesi sotto il sole del mattino, con una pigra voluttà». Di contro allo «stupore» e alla «malinconia» indotti dai vagabondaggi notturni, nel mondo vuoto di luci e di presenze, ecco la voracità delle mattine e dei pomeriggi illuminati dall’atro rilucente, l’abbaglio dei corpi maschili, la cruda e felice e conturbante vitalità mediterranea. Qui è quasi una confessione di poetica: «Vivono in me una gioia, una pigrizia, una tenerezza, una sensualità tutte meridionali. L’anima mia anela a stendersi al sole, tal quale un marsigliese, uno del Pireo, un napoletano, uno di Alessandria». Difficile è non pensare ai corpi mezzi nudi e in abbandono, magari scrutati di nascosto, dall’interno o dall’esterno di una porta o di una finestra, così presenti nei versi di Kavafis o in quelli di Sandro Penna. Avendo all’inizio chiamato in causa Benjamin, si può dire che l’angelo del desiderio presiede a molte pagine di Faik, un desiderio tanto più esplosivo quanto più è represso o semplicemente nascosto oppure dissimulato.
Ma infine, chiediamoci, chi è l’«uomo inutile» di Saik? A quali altri personaggi letterari assomiglia? A quale famiglia appartiene? La sua natura è certamente ambigua, ambivalente è il suo rapporto col mondo, con le cose, con gli esseri umani. Egli ne è attratto e tuttavia se ne sente e se ne vuole respinto, si dà e si nega. «Era tempo che non scendevo in città», dice il narratore. E continua: «Quel giorno, quando ho aperto la porta dell’hotel con l’intenzione di amare l’umanità intera e tutte le persone, il primo essere che ho incontrato era un portabagagli. Un bambino». Ma siccome l’uomo non ha alcuna valigia da trasportare, il piccolo facchino ferma quello slancio fatto di tenerezza e di generosità: «Non prenderti troppa confidenza!». Così, tappa dopo tappa, incontro dopo incontro, nel lungo girovagare per le strade di Istanbul, non gli riuscirà, come si era prefisso, di «abbracciare il mondo e la città senza ipocrisia». Egli, come Jakob von Gunten, studia (in strada e non in un istituto) per diventare uno zero ovvero per tutelare e anzi accrescere la propria libertà, per nutrire e rafforzare il distacco necessario allo scrutatore d’anime e di corpi non meno che all’osservatore, al cacciatore di dettagli, di crocicchi, di cortili, di odori e profumi, di gesti e di sguardi, di interni fumosi di botteghe e di osterie. Senza, tuttavia, dimenticare qualche basilare elemento di economia politica, come ad esempio la seguente: «In ogni profitto eccessivo e nella civiltà del Settentrione vedevo un’ingiustizia ai danni dei bambini del Meridione».
Sait Faik Abasıyanık si recò ancora in Francia nel 1951, questa seconda volta a Parigi, per curare una gravissima forma di cirrosi. Il risultato fu deludente. Tornato in patria, visse ancora tre anni. Morì l’11 maggio del 1954. Pare che nei giorni antecedenti la fine i suoi amici pescatori dell’isola di Burgaz, che lui aveva così spesso raccontato nelle sue prose, accorsero in tanti all’ospedale di Istanbul per donare il loro sangue nel tentativo di salvargli la vita.