Si può apprezzare l’idea della coalizione sociale, promossa da Maurizio Landini, ma non condividere le parole dello stesso Landini su Matteo Renzi? In particolare quando dice che quest’ultimo sarebbe «peggio di Berlusconi»? Ecco il punto: penso che quel giudizio sull’attuale premier sia una sciocchezza da comizio (anche nobile e certamente efficace come molte delle sciocchezze che si dicono nei comizi), ma ritengo allo stesso tempo che quello promosso dal segretario della Fiom costituisca un progetto importante.

E lo dico prendendo alla lettera le parole dello stesso Landini, in particolare su due punti essenziali. Ovvero:

  1. non si va verso un nuovo partito politico;
  2. si va verso l’organizzazione e il coordinamento di movimenti, sindacati, associazioni e comitati, attivi sulle grandi tematiche del lavoro, dell’inclusione sociale e dei diritti di libertà.

Tengo molto al punto 1), innanzitutto perché personalmente non mi sento in alcun modo attratto dalla prospettiva di un nuovo partito e, poi, perché ne temo l’esito pressoché fatale.

Landini rischia di essere destinato a rappresentare – nel caso che si vada verso un nuovo partito – l’icona finale di una micidiale sequenza di aspettative e frustrazioni e di illusioni e fallimenti, che ha scandito l’ultimo quarto di secolo della sinistra non tradizionale.

In altre parole, il segretario della Fiom sarebbe una ulteriore figura intensamente espressiva di una successione di leader immaginari, che prese le mosse nei primi anni Novanta e che, via via, si è incarnata in una serie di capi istantanei e transitori. Destinatari, tutti, di grandi investimenti emotivi e irresponsabili dissipatori degli stessi. Ecco un elenco parziale: Leoluca Orlando, Fausto Bertinotti, Antonio Di Pietro, Luigi De Magistris, Beppe Grillo, Antonio Ingroia, Barbara Spinelli. E ora?

Ora, Maurizio Landini, il più appealing di tutti: dotato di una sua constituency piuttosto robusta (i lavoratori metalmeccanici) e di una forza mediatica superiore a quella di Di Pietro e pari solo a quella di Bertinotti.

Personalmente, lo ritengo un ottimo sindacalista, se posso dire «all’americana»: ovvero molto attento alle problematiche di mestiere, di comparto e di distretto e sapientemente «contrattualista» (e al contrario di quanto ha detto ingenerosamente il premier, firmatario di buoni recenti accordi sindacali). D’altra parte, solo grazie a questo – alla solidità della base sociale di riferimento – ha potuto valorizzare la politicità dell’azione della Fiom e il senso ovviamente altrettanto politico del progetto di coalizione sociale.

Per i lettori del manifesto è del tutto ovvio che quella politicità non corrisponde necessariamente alla costituzione di un nuovo partito. Ma quella stessa politicità può risultare molto utile in un quadro sociale profondamente logorato, dove tendono a esaurirsi le vecchie appartenenze e le tradizionali forme di aggregazione; e dove la mobilitazione collettiva stenta a trovare forme unitarie e tende, piuttosto a esprimersi in mille rivoli e a manifestarsi in mille vertenze e mille conflitti.

Rispetto a ciò, un «movimento dei movimenti», affidato a un corpo centrale come il sindacato dei metalmeccanici, e capace di coordinare iniziative diverse, promosse da soggetti diversi, può essere una risorsa assai preziosa.

A molti sembrerà un’ipotesi del tutto insufficiente. E tale apparirà, in particolare, a quel milione circa di cittadini che, come si diceva, da venticinque anni investono le proprie speranze e il proprio voto in una ipotesi di organizzazione alternativa al partito maggioritario della sinistra. E in un leader che in quel momento ne incarni la promessa.

Io, a quella promessa, ho creduto per più decenni, a partire da quando, sedicenne, lasciai la Fgci per un fugace passaggio nello Psiup. Da allora, la mia vita politica si è svolta interamente dentro il minoritarismo di sinistra: fino al 2005, quando aderii ai Ds. Da quel momento ho adottato il paradigma diciamo così «trotzkista».

Per ragioni di spazio, mi trovo costretto a un’estrema semplificazione: così definisco, con quel paradigma, il ruolo giocato, ad esempio, dalla sinistra (compresa quella estrema) all’interno del Labour Party in Inghilterra. Lì la sinistra, anche quando sconfitta, e magari espulsa, mai ha rinunciato alla lotta per influenzare il partito e per potervi conquistare spazi e ruoli. Al punto che, nel 2000, la sinistra sostiene la candidatura a sindaco di Londra di Ken Livingstone, in alternativa al candidato laburista ufficiale. Livingstone e i suoi sostenitori vengono espulsi, ma si guardano bene dal fondare un nuovo partito. Livingstone prevarrà e verrà eletto: così che, nel gennaio del 2004, sarà riammesso nel partito e presentato come candidato ufficiale laburista alle elezioni del giugno successivo, quando otterrà il suo secondo mandato.

Come si vede, entrambe le alternative – quella dell’opposizione interna e quella della secessione – sono estremamente faticose e tutt’altro che agevoli da percorrere. Ma l’idea che si debba fare una guerra atomica al fine di superare la soglia del 3% alle prossime elezioni mi sembra piuttosto deprimente.