L’amore secondo Dalva così come il titolo originale, Dalva – il nome della protagonista – ci dice molto del film di Emmanuelle Nicot, un’opera prima potente, che sa controllare con precisione il proprio soggetti assumendone i rischi senza alcuna enfasi, in una narrazione priva di esibizionismi. Perché Dalva – magnifica Zelda Samson – è più che la protagonista, è lo sguardo e il corpo del film sin dalle prime sequenze, quando si dibatte con forza urlando per fuggire via, e dopo ribelle a ogni regola, ostinata, nega la sua realtà e è disposta a lottare contro ogni ostacolo per amore. Ma a cosa allude questo amore? Al sesso, e a chi l’ha plasmata come una bambola troppo vecchia per la sua età, inculcandole l’idea che «amare significa scopare», per questo lei si «mette in scena» col rossetto carico e quegli abiti di pizzi fuori luogo. Però Dalva ha dodici anni, e a chiuderla in quella figurina dolorosamente retrò è stato il padre, che l’ha rapita piccolissima, abusata, plasmata nell’incesto di un ideale femminile per farne la «sua» donna. Proiettando su di lei un po’ della moglie che lo aveva lasciato – il colore dei capelli – e molto delle fantasie erotiche di un potere patriarcale malato, di un maschile osceno, lui vecchio, con la pancia, senza capelli, ha reso quel piccolo corpo di bambina un terreno emozionalmente devastato. Dalva non è andata a scuola, non ha mai avuto amiche, non sa fare nulla da sé nemmeno scegliersi un vestito: ciò che indossa lo sceglieva lui, il suo «stile» lo aveva deciso lui per accendere il suo desiderio. «Io lo amo» ripete come un gioco rotto agli educatori del centro di protezione per minori dove l’hanno portata dopo che qualcuno ha chiamato la polizia. Mentre la madre che l’aveva cercata per anni, e ne aveva denunciato il rapimento, lei crede come lui le ha inculcato che li ha abbandonati.

Ciò che Nicot fa, a questo punto, è seguire il cammino della sua giovane protagonista verso una liberazione che può essere soltanto quello di tornare in qualche modo bambina, di ritrovare qualcosa dell’infanzia che non ha mai vissuto, che certo non potrà più esserci ma che è anche il solo spazio nel quale può finalmente rivivere. Non è facile, anzi è una lotta durissima che la regista riesce a tradurre nelle sue immagini e nella sua scrittura (è anche autrice della sceneggiatura) rimanendo sempre accanto a lei. La macchina da presa a distanza ravvicinata segue i suoi movimenti, e quell’essere «fuori posto» tra i coetanei che la prendono in giro, fra le bimbe «normali» della scuola che le chiedono se «faceva i pompini al padre» e ripetono sempre davanti a lei con insistenza cattiva la parola «pedofilo». Poi ci sono le ragazze del centro, la sua compagna di stanza che odia il trucco e i vestitini – la fanno sentire come la madre che si prostituiva – ma con loro si può dire tutto non c’è bisogno di nascondersi. Un confine sfuggente, dove mai collocarsi? Nella tempesta di caos e dolore della ragazzina Nicot entra piano, e si mette all’ascolto, a partire come dice lei stessa dall’esperienza avuta seguendo per un lungo periodo dei ragazzini in un centro di accoglienza per adolescenti (da cui è nato il suo corto, A l’arraché) e la loro battaglia per assumere coscienza di ciò che avevano vissuto.

«PERCHÉ un padre e una figlia non si possono amare?» chiede la ragazzina. E rifiuta altre spiegazioni che non sono la sua. Eppure pian piano le si schiude davanti agli occhi qualcos’altro. È su questo bordo di conflitti, paure, violenze che la storia di Dalva assume la sua verità e con lei ciò che la circonda. Nicot non crea dei mondi in bianco/ nero, ciascuno ha le sue debolezze, le sue fragilità – a cominciare dagli educatori come il ragazzo che è capitato a Dalva e che lei cercherà di sedurre.
Ma è sempre il corpo a parlare, più delle frasi, più delle parole, a dirci del trauma, del dolore. Nicot non mostra, non ricostruisce, e questo rende ogni frammento del suo racconto più forte. Tutto è già accaduto nella casa ancora sotto sequestro, che è stata la prigione di Dalva, di cui ogni dettaglio rivela la repulsione, e tutto ora può accadere.