«Non abbiamo ancora una strategia contro l’Isis». La candida ammissione – che gli è costata una pioggia di critiche repubblicane – è arrivata giovedì notte dal presidente statunitense Obama: gli Usa non sanno come affrontare la minaccia dello Stato Islamico. Il presidente ha fatto sapere di aver chiesto al segretario alla Difesa Hagel di preparare un ventaglio di opzioni per fermare i jihadisti in Medio Oriente. E dopo aver sottolineato come i raid delle scorse settimane abbiano permesso a kurdi e esercito iracheno di riprendersi porzioni di territorio occupato, ha annunciato un nuovo tour del segretario di Stato Kerry per convincere i paesi arabi alleati a formare una coalizione anti-terrore.

È chiaro che Obama intende prendere tempo, come avevano rivelato fonti a lui vicine: a fine mese si incontra la Nato e il summit potrebbe essere l’occasione per dare vita ad una coalizione che intervenga in Siria, il vero cruccio di Washington. Obama sorvola: gli Usa non temono di aiutare indirettamente Assad, perché le zone potenzialmente target delle bombe sono quelle a nord est, da cui il regime è assente politicamente da tempo. Ma non militarmente: nei giorni scorsi una serie di controffensive sono state lanciate ad Aleppo e Idlib e alla periferia di Damasco.

La notizia arriva insieme alle immagini di 250 soldati governativi brutalmente giustiziati dall’Isis a Raqqa, dopo la presa jihadista della base militare di Tabqa. Esecuzioni ormai all’ordine del giorno nei territori occupati di Siria e Iraq, mentre emergono dettagli sulla prigionia del reporter James Foley e altri ostaggi dell’Isis, più volte sottoposti a torture nello stile di quelle perpetrate da soldati Usa e Cia a Guantanamo: finte esecuzioni, crocifissioni e waterboarding. Nelle stesse ore è stato pubblicato il video di un’altra decapitazione: a perdere la vita è stato un peshmerga, chiaro messaggio per i kurdi.

Per impedire l’ulteriore avanzata islamista, in assenza per ora dei raid Usa, è l’aviazione irachena a sganciare bombe su Mosul. Il conflitto ha già provocato un milione e mezzo di sfollati. Ancora più esorbitante il bilancio stilato dall’Onu in Siria: i rifugiati siriani all’estero hanno superato i tre milioni, sei milioni e mezzo quelli rimasti dentro i confini nazionali. «La crisi siriana è la più grande emergenza umanitaria della nostra epoca, eppure il mondo non è ancora riuscito a soddisfare i bisogni dei rifugiati e dei paesi ospitanti», ha commentato un amareggiato Antonio Guterres, alto commissario Onu per i rifugiati. La maggior parte è fuggita in Libano (oltre un milione e 170mila persone), provocando il collasso dei campi profughi già esistenti e la dura reazione delle fragili istituzioni libanesi che tentano di chiudere le frontiere; 830mila in Turchia; 613mila in Giordania.

L’Unhcr lancia un allarme già gridato altre volte: sono milioni i profughi terrorizzati e stanchi per un viaggio da un villaggio all’altro, spesso minacciati e derubati da gruppi armati. In Iraq Washington ha promosso raid «umanitari» per gli sfollati in fuga dall’Isis. In Siria si muore da tre anni, anche a causa del fiume di armi arrivato a miliziani di ogni tipo, ma la preoccupazione della Casa Bianca resta come intervenire senza dare una mano a Assad.

Rimangono intanto nelle mani degli islamisti anti-Damasco i 43 caschi blu delle Isole Fiji catturati giovedì al confine con Israele. Altri 75, posti a difesa di due posti di controllo, sono circondati dal Fronte al-Nusra. Uno dei colonnelli della missione di interposizione Onu, Roberto Ancan, non ha escluso l’uso della forza per liberarli («Le nostre truppe sono ben armate e addestrate»), mentre il primo ministro delle Fiji ha assicurato che i negoziati per il rilascio sono in corso.