A tre anni di distanza da Unrepentant Geraldines, caleidoscopico ritorno alla grazia espressa nei suoi migliori dischi anni ’90, la cantautrice statunitense Tori Amos ritorna con il dolente Native Invader, quindici tracce sospese fra traumi privati (la malattia della madre) e «nazionali» (L’America nell’era Trump). A un primo ascolto, l’album sembra quasi un compendio di singoli e B-sides, vista l’assoluta varietà di stile, influenze e risultati ondeggianti ma, a un ascolto più attento, emerge con forza quasi un’essenza da grande romanzo americano, capace di fondere fin dal titolo, in un’unica storia universale, cosmogonia, politica e tragedie personali. Spiccano, tra le altre, le ballate per pianoforte «classiche» della cantautrice, come Bang e la spettrale Mary’s Eyes, o il sorprendente trip-hop di Wings.