Chi era Garry Marshall e perché si parla tanto bene di lui? Più che un cineasta e un produttore, Marshall era un luogo dell’immaginario. L’America dei suoi (tele)film non è mai esistita ma ha senz’altro fatto molto di più per la gente degli Stati uniti di quanto non abbiano fatto altri. Un luogo, dunque, che assumeva i tratti di un piccolo mondo antico di provincia, quasi una versione in scala ridotta di Norman Rockwell e di Edward Hopper. C’era tutto, solo più piccolo. Delle dimensioni, per fare un esempio, del diner gestito da Al Molinaro in Happy Days.

Marshall, che in parte era anche italiano, suo padre, abruzzese, si chiamava Masciarelli prima di cambiare nome, è stato una delle figure più attive dello show biz. Lo si ricorda, ovviamente, per il suo lavoro televisivo, soprattutto Happy Days e Mork&Mindy, serie che ha lanciato Robin Williams.

21vis2garrymarshal

In realtà Marshall ha attraversato in lungo e in largo il cinema e la televisione. Attore, scrittore, sceneggiatore, produttore e regista. Prima ancora di Happy Days in televisione ha legato il suo nome a show passati alla storia dell’intrattenimento come The Dick Van Dyke Show, The Lucy Show e Bob Hope Presents the Chrysler Theater.

Happy Days giunge a metà degli anni Settanta e tiene botta per dieci anni. Ed è proprio dal successo della serie che lancia Ron Howard e Henry Winkler che nasce quasi come uno spin off Mork & Mindy. L’alieno Robin Williams appare per la prima volta in Happy Days prima che gli venga dedicata una serie. La televisione probabilmente è il vero lascito di Marshall. Dalla fine degli anni Cinquanta ha lavorato ininterrottamente per il piccolo schermo. Ed è per questo motivo probabilmente che i suoi film sapevano cogliere sempre con tanta precisione i gangli vitali delle emozioni e dello sguardo degli spettatori.
Marshall possedeva il dono di parlare con il gusto delle piccole cose attraverso un medietà televisiva che a suo modo era la rielaborazione inevitabile della «piccola» classicità dei Norman Taurog o di un Henry Koster. Niente di trascendentale, ovvio, ma forse è proprio questo il segreto che fa sì che un film come Pretty Woman più che vederlo lo si rivede sempre.

Proprio come certi autori, Marshall faceva sempre lo stesso film e proprio come certi autori, sapeva farsi riconoscere. «Il regista è quello di Happy Days», sussurrava il pubblico entrando a vedere Capodanno a New York. E di fronte a certi meccanismi di riconoscimento non c’è teoria degli autori che tenga.

Inevitabilmente è proprio questo processo di riconoscimento la pietra angolare dell’universo di Garry Marshall, l’elemento che fa sì che il suo (tele)film diventi un mondo popolato da affetti e motivi ritornanti.

21happydays

Il suo essere disseminato come presenza registica, attoriale, produttiva o solo come interprete vocale (Looney Tunes, Simpson), fa sì che Garry Marshall, più che un marchio, sia una funzione. Per questo motivo quando poco tempo dopo Pretty Woman uscì Paura d’amare, quasi non lo si riconosceva Marshall, anche se probabilmente si tratta del suo film più bello. Attraverso le convenzioni di genere, Marshall metteva in scena il proprio sguardo e la sua politica dei sentimenti.

Un film piccolo, magari, ma tanto più prezioso oggi, quando il segreto dell’artigianato di una volta sembra essere ormai dimenticato.

Ed è proprio per questo motivo che era sempre bello ritornare nel paese di Garry Marshall. Certo, si sapeva quel che si trovava. Eppure una certa grazia e una certa eleganza sono sempre state solo sue. E dire che ci mancherà è inevitabile. Soprattutto oggi che l’America di Mork e Happy Days è scomparsa per sempre.