Pascale Molinier insegna psicologia sociale all’Università di Paris 13 Villetaneuse e fa parte del gruppo care: così si autodefiniscono le studiose, docenti, ricercatrici che nel 2005 con il testo collettaneo Le souci des autres (Puf) hanno inaugurato la prospettiva francese sulla cura. Ora in Italia, tradotto da Alice Guareschi, viene pubblicato un volume importante di Molinier (edito nel 2013 per La Dispute, Le travail du care) con il titolo Care: prendersi cura. Un lavoro inestimabile (Moretti&Vitali, pp. 200, euro 17, collana «Pensiero e pratiche di trasformazione»).
Come precisa Annarosa Buttarelli nella sua nota, Pascale Molinier preferisce non tradurre la parola care, si tratta di una scelta che viene ripresa e approfondita varie volte nei lavori del gruppo francese, non solo da Molinier, ma anche da Patricia Paperman, Caroline Ibos, Sandra Laugier e alre. Poter utilizzare la parola inglese, con tutte le difficoltà che questa decisione comporta specie in un paese come la Francia, risaputamente restio all’utilizzo dei prestiti linguistici, ha un indubbio vantaggio: mantenere la marca epistemologica del care, il suo essere un dispositivo cognitivo. Il termine care permette, infatti, di non ricorrere alle specificazioni che sono necessarie, per esempio in italiano, quando ci si riferisce al lavoro di cura, alla cura famigliare, all’etica femminista della cura. Tutte queste connotazioni sono comprese in un’unica parola straniera, che diventa così uno strumento epistemologico.

IL TESTO di Molinier si sofferma su ognuna di queste declinazioni: il lavoro, l’etica, il femminismo e lo fa a partire da una ricerca sul campo. Si è recata regolarmente in una casa di riposo in regione parigina a cui ha dato il nome fittizio di Villa Plénitude, perché: «basterebbe venire a vedere per capire. È detto tutto in un certo senso, di quel che può rendere la loro etica invisibile agli occhi di chi non si sposta mai, quelli che non sanno che i bidoni della spazzatura puzzano e gli ascensori si rompono in un mondo reale dove si ha mal di schiena e dove manca il personale». Vedere che le lavoratrici di cura, le assistenti personali degli anziani e dei malati di Alzheimer di Villa Plénitude sono per la stragrande maggioranza donne, immigrate, povere, come Patricia Paperman le definisce nel suo contributo a Le souci des autres, intitolato Le persone vulnerabili non hanno nulla di speciale. Molinier specifica infatti che «solo donne che vivono in questo tipo di situazione difficile, madri sole o con mariti di poche risorse accettano un posto di lavoro simile».

NEL TESTO compare più volte l’espressione «lavoro sporco»: il care lo è, non solo perché ha a che fare con le deiezioni di corpi malati o decrepiti, ma anche perché è complesso avere una relazione costante con la morte, non solo quando si tratta della cura agli anziani. Anche per quanto riguarda i malati di Alzheimer, l’autrice riporta come i famigliari parlino spesso dei propri cari come se non fossero più in vita, perché non sono in nessun modo simili a come erano prima che la malattia li trasformasse. Chiunque abbia l’esperienza di un conoscente o una persona prossima affetta da questo morbo sa che non è possibile biasimare i famigliari che si esprimono così. Il care è ambiguo dice poi Molinier. Lo è perché le lavoratrici di Villa Plénitude devono occuparsi dei loro pazienti perché altrimenti perdono l’impiego e non in nome «di una natura gentile e amorevole». È ambiguo anche nel caso dei genitori di bambini affetti dalla mucoviscidosi, come emerge nell’inchiesta d Geneviève Cresson, citata da Molinier: è impossibile per loro, infatti, mantenere l’igiene che sarebbe richiesta da quella patologia, così a volte fumano una sigaretta o permettono agli altri figli sani di entrare in casa con le scarpe sporche, perché anche loro esistono e anche la loro infanzia sana deve essere riconosciuta. È ambiguo perché le lavoratrici intervistate usano il linguaggio dell’amore, si riferiscono ai pazienti con gli appellativi di «mamma»; «papà», «tesoro», nonostante la direzione di Villa Plénitude cerchi di impedirglielo. Molinier stessa ammette di aver provato a ribellarsi a questo linguaggio: «sono un’intellettuale francese, diffido a priori di tutto che può risuonare essenzialista». Solo che: «le lavoratrici parlano d’amore. Bisogna accettare di arrendersi alla parola dell’altro, anche se non ci corrisponde, accettare la conversazione».

LA VOCE DELL’ALTRO, dell’altra, è proprio il punto di partenza dell’etica della cura, tanto travisata, fin dalla sua prima elaborazione nel 1982 a opera di Carol Gilligan (ulteriore e specifica è l’elaborazione del «Gruppo del mercoledì» che in Italia ha lavorato sul tema e nel settembre del 2011 ha fatto uscire nella rivista «Leggendaria» un supplemento dal titolo La cura del vivere). Eppure, l’etica della cura, si situa nel solco dell’importanza del volto dell’altro di cui scrive Lévinas. Soprattutto, come scrive Molinier, l’etica della cura è femminista: «se il femminismo ha un senso è quello di dare le parole per nominare le esperienze femminili, di perseverare nel decostruire le episteme virili per creare i nuovi strumenti che distruggeranno ‘la casa del padrone’».
Nominare le esperienze delle donne che svolgono un’attività di cura che sia retribuita o non, raccontarle, andarle a vedere, comporta allora dire del lavoro sporco, dell’ambiguità, anche sessuale, nella relazione col corpo inerme, dell’amore e dell’odio che sono presenti, gemelli. Non solo: dal punto di vista politico significa dare voce agli individui più fragili della nostra società, alla «nuova schiavitù», come la definisce Molinier, ma prevede anche occuparsi dell’ambiente, dello sviluppo sostenibile, della psichiatria, dell’handicap, perché il care lo fa. Sta a noi decidere se restare o meno indifferenti, come solo i privilegiati si possono permettere di fare.