A Zygmunt Bauman non difetta la scanzonata tendenza a mettere in relazione campi disciplinari, attorno ai quali sono state costruite mura strettamente sorvegliate dai padroni della produzione sociale della conoscenza. I suoi libri sono costellati da riferimenti letterari, filosofici, economici, televisivi e cinematografici. E tuttavia lo studioso di origine polacche non si stanca mai di ripetere che in fondo lui è solo un sociologo, una disciplina che può aiutare a comprendere il funzionamento della società. Ed è proprio dallo statuto disciplinare che prende le mosse il libro-intervista di Bauman con Michael Hviid Jacobsen e Keith Tester che ha come titolo La scienza della libertà (Erikson edizioni, pp. 160, euro 15).

Non è però la sociologia la scienza della libertà, anche se in passato è stata così rappresentata. Tanto gli intervistatori che l’intervistato sono consapevoli che le cosiddette scienze sociali sono stati spesso uno strumento nelle mani del «potere costituito» per costruire il consenso a un ordine sociale. Eppure ritengono che la sociologia possa continuare a svolgere un ruolo rilevante nella comprensione delle relazioni sociali. A patto, però, che la sociologia sia consapevole che la necessaria dimensione quantitativa e le astrazioni su cui poggia sono un modo diverso di rappresentare la vita, gli affetti, le passioni di uomini e donne al pari della letteratura, della cinematografia. Con alcune affermazioni di Bauman che suscitano meraviglia negli intervistatori. Come quando il cartografo della modernità liquida sostiene che ci sono, storicamente, alcuni romanzi che hanno avuto la capacità di cogliere la realtà sociale più di un trattato sullo stato nazione o sulle classi sociali.
Questo libro-intervista può essere considerato in due maniere. La difesa, intelligente e sofisticata, di una disciplina accademica fortemente contestata negli anni passati proprio perché usata dal potere costituito. Oppure può essere letto come un testo che sottolinea l’ambivalenza che caratterizza la modernità liquida. È questa seconda caratteristica, presente in maniera rilevante nelle pagine del volume, che svela il carattere «aperto» della riflessione di Bauman. Aperta a essere smentita, certo, ma anche tesa a misurarsi con temi, argomenti considerati «minori» proprio dalla sociologia, come le relazioni amorose, i talk show, il cinismo di massa e i sentimenti che accompagnano la modernità liquida (il risentimento, l’opportunismo, il rifiuto di una etica pubblica). Rispetto a ciò, Bauman è consapevole che le fonti a cui attingere materiali non hanno nulla a che fare con l’ammasso di dati statistici o le «astrazioni» delle discipline accademiche, ma sono materiali grezzi, poco lavorativi, che restituiscono tutto ciò che la sociologia a sempre ritenuto inessenziali: i sentimenti. Da qui la centralità della loro ambivalenza.
Da questo punto di vista l’ambivalenza rivela il suo potere esplicativo delle relazioni sociali. L’esempio più ricorrente in Bauman è il consumo. L’acquisto dell’ultimo gadget tecnologico o il ricambio vorticoso del proprio guardaroba sono certi comprensibili all’interno dei meccanismi di riproduzione dell’ordine sociale economico, ma hanno anche a che fare con una tensione alla libertà che non può essere frettolosamente liquidata come una colonizzazione delle coscienza da parte del capitale. Il consumo è un atto ambivalente, perché prefigura dominio, ma anche ricerca della libertà. È questa ambivalenza dei fenomeni sociali e delle motivazioni personali che ha potere performativo.
«La scienza della libertà» risiede non tanto nella cancellazione dell’ambivalenza, ma nella sua forzatura in una direzione o nell’altra. Tra dominio e sottrazione dal potere, Bauman tuttavia non sceglie. Mantiene «aperta» la sua riflessione a esiti ancora non contemplati dal lessico politico. Ma è proprio in questa apertura che si possono accentuare i punti di rottura, di fuoriuscita dall’ordine sociale dominante. Una prospettiva che potrebbe essere accolta da Zygmunt Bauman con un sorriso venato da un amaro disincanto.