C’è stato un tempo in cui per le strade della penisola italiana i patrioti gridavano «Viva Pio IX». Un triennio, dal 1846 al 1849, che è stato successivamente interpretato come una parentesi, secondo una lettura politica che non può essere accolta anche in sede storiografica.

L’INTUIZIONE di partenza alla base del pregevole lavoro di Ignazio Veca, Il mito di Pio IX. Storia di un papa liberale e nazionale (Viella, pp. 312, euro 29) è che il mito del papa liberale fu molto di più dell’aspirazione della pattuglia dei neo-guelfi. Basterebbero a dimostrarlo la sua ampia circolazione a livello internazionale e la diversità degli ambienti politici che hanno cercato di strumentalizzarlo, come il libro mostra sulla base di un solida documentazione che spazia dalle fonti di archivio, alla pubblicistica, alle immagini e agli oggetti. Agli occhi dello studioso l’affermazione del mito si presenta quindi come un’opportunità per indagare i rapporti tra politica e religione nel lungo 1848.

LA RICOSTRUZIONE prende le mosse dall’estate del 1846, quando papa Mastai Ferretti, fresco di elezione, promulga il decreto di amnistia. Vengono quindi prese in esame le reazioni prodotte dall’azione di un pontefice che fa concessioni limitate, ma di grande impatto simbolico, riforme amministrative e innovazioni, senza tuttavia intaccare la forma di governo. Pio IX desidera sinceramente mettere la Chiesa in sintonia con le aspirazioni italiane all’indipendenza, come emerge chiaramente anche dalla travagliata allocuzione del 29 aprile 1848, con la quale, interrompendo di fatto l’iniziale sostegno alla guerra del re di Sardegna, dichiara di non poter intervenire contro un’altra nazione cattolica, senza però impedire ai propri sudditi di partecipare come volontari alla lotta ingaggiata da Carlo Alberto.

QUESTA SCELTA segna anche il fallimento del progetto di coloro che vogliono porre il papa alla testa del Risorgimento. Per quanto riguarda l’organizzazione politica, scrive Veca, «con lo Statuto del 14 marzo, le contraddizioni di una co-gestione controllata della cosa pubblica esplosero, consumando nel giro di un anno tutta quella “forza morale” che si era tentato di gestire a profitto del mantenimento degli Stati ecclesiastici».
Fin dal primo capitolo Veca mette in luce come il papa sia stato abile nel giocare con l’ambiguità che circonda la sua figura, presentandosi come un sovrano pontefice di tipo nuovo, connesso alla modernizzazione delle forme della politica (rapporto diretto con le masse, spettacolarizzazione del potere e così via). Nello stesso tempo, l’autore non trascura l’evoluzione della mentalità popolare, investigata attraverso le cerimonie pubbliche, la stampa e le scritte sui muri: strumenti, «la cui forza vitale era il prodotto stesso della loro ripetizione», la quale, a sua volta, va a fondare «una nuova tradizione manipolando i materiali accumulati nella cultura figurativa europea». Ma naturalmente, da questo repertorio simbolico è possibile attingere per finalità propagandistiche diverse: si pensi all’utilizzo strumentale che ne viene fatto da parte di Victor Hugo, Mazzini e Mameli.

LE PAGINE FINALI si soffermano sul passaggio dal mito all’anti-mito che avrebbe traghettato Pio IX verso la nuova immagine del difensore della cristianità. Nell’analisi proposta da Veca il triennio preso in esame risulta tuttavia la vera cartina di tornasole per andare più in profondità nello studio delle radici di alcuni dispositivi politici della contemporaneità. Quello della «nazione cattolica», in primo luogo, il cui «cortocircuito» che per un breve periodo si viene a creare con le culture nazional-patriottiche italiane ed europee «invita a non sottovalutare le ragioni di simili intrecci» e apre la strada a nuove genealogie. Ma anche, e forse soprattutto, il funzionamento della «macchina mitologica» in relazione alla politica carismatica. Ricorda l’autore, «i miti non sono l’espressione di un presunto inconscio collettivo; sono piuttosto un prodotto umano fatto di uniformità e discontinuità, assonanze e dissonanze: attraverso di esso gli esseri umani non danno soltanto senso al reale, ma lo plasmano».