Somiglia più a Jerry Lewis un Adriano Celentano o un Franco Franchi o, magari, un Carmelo Bene? Come conciliare la passione per Jean-Luc Godard, Howard Hawks e quella per Jerry Lewis? Negli anni ’60 e ’70, da bravi critici militanti, lo potevamo spiegare. Oggi, non so. Come potevamo spiegare l’importanza politica del cinema di Jerry Lewis all’interno di Hollywood e accettare il fatto che possedesse la villa di Louis B. Mayer a Bel-Air di trentadue stanze e indossasse solo terribili calzini bianchi nei suoi film.

E potevamo domandarci con dotti saggi se il suo personaggio fosse più uno shlemiel o uno shlemazel o la fusione di tutti e due, come lo stesso Jerry sosteneva. Allora sapevamo a mente le battute di capolavori come L’idolo delle donne o Il ciarlatano o Le folli notti del Dottor Jerryll. Sapete come si fa uno «scaldino per orsi siberiani»? Lo spiegava Buddy Love, il doppelganger cattivo di Julius Kelp, l’impacciato ricercatore dentone e occhialuto di Le folli notti del Dottor Jerryll, all’allibito barista Buddy Lester. Beh, solo Buddy Love potevamo cantare al piano Black Magic.

L’ingresso di Buddy Love nel cinema di Jerry Lewis, cioè l’ingresso del suo doppio, è esplosivo come l’ingresso dell’oscuro fan Rupert Pupkin, cioè Robert De Niro, nella vita della star dello spettacolo Jerry Langdon, cioè Jerry Lewis, nel fondamentale King of Comedy di Martin Scorsese, il vero addio al cinema di Jerry e assieme il suo autoritratto più feroce. O l’ingresso di Cinderfella con commento di Count Basie nel geniale Il cenerentolo di Frank Tashlin. Ma Jerry non è solo ossessionato dal suo doppio, come tanti comici, ma da tutta una moltitudine di doppi possibili. «Ogni idiota può recitare il fool», scriveva Raymond Durgnat, «ma soltanto Jerry Lewis può recitare tanti idioti simultaneamente. È l’imbecillità affondata all’altezza del genio. Sembra che abbia la mentalità di un bambino di sei anni, ma un seienne caricato per esplodere in ogni emozione che è andato sopprimendo da quando aveva un anno. Non tanto si scarica quanto si disintegra in una gamma emotiva che passa attraverso Paperino, il mostro di Frankenstein, Pluto, Citah, Alfred E. Neumann, Phlebus, Stan Laurel, Michel Simon in La chienne…».

Potrei aggiungere un’altra serie infinita di personaggi, del cinema vero e di cartone. Ma soprattutto potrei aggiungere tanti personaggi del cinema del futuro che, in qualche modo, saranno toccati dalla schlemielitudine, dalla carica disintegrativa di Jerry, siano ebrei o neri come Eddie Murphy o terroni come Checco Zalone. Il disintegrarsi del comico all’interno dello spazio del racconto cinematografico, lo sappiamo, viene direttamente dal cinema di Stan Laurel, che giocando sulla coppia con Oliver Hardy esplodeva spesso dentro a camere d’albergo, strade, scalinate. Non a caso a Stanlio, allora ancora vivo, è dedicato il suo primo film da regista, The Bellboy – Ragazzo tuttofare. Ma quello che Stanlio fa in coppia, Jerry è obbligato a farlo uscendo da se stesso, sdoppiandosi o triplicandosi come un qualsiasi Dale Cooper lynchiano.

E’ l’altro se stesso, il purissimo schlemiel, come Dougie Jones in Twin Peaks, che funziona da matrice, ma è il suo doppio Buddy Love a fare esplodere racconto e scenografia. Alla fine, però, non riusciamo a vedere uno senza l’altro, e perfino Jerry rimanda di continuo a un altro da sé anche quando non è messo in scena. Se il suo funzionamento comico minimo è da schlemiel che ha studiato da Stan Laurel, e gli ha preso la purezza scozzese che si specchia nel camera look (lo sguardo in macchina) di Ollio, la sua messa in scena comica prende molto dalla grande lezione di Frank Tashlin, cioè dalla scuola di cartoon dei maestri della Warner Bros, cioè Tex Avery, Friz Freleng, Chuck Jones.

Tashlin gli cuce addosso, pensiamo a Artisti e modelle o a Il balio asciutto, delle situazioni che potrebbero essere pensate per un Bugs Bunny, come quando è obbligato dentro a un televisore a fare tutto un palinsesto di programmi diversi, ma gli insegna anche a usare comicamente la scenografia e la gag nella gag. In questo non c’è nulla di umorismo ebraico, puro cartoon, ma le regole di quel tipo di costruzione comica sono così precise che Jerry ha bisogno di un cast che sia non solo sempre lo stesso, ma soprattutto affiatatissimo e fedelissimo. Ci sono caratteristi che funzionano solo con Jerry, come la grossa Kathleen Freeman, che John Landis omaggerà in The Blues Brothers, o Fritz Feld, il cameriere nervoso che viene dalla commedia di Lubitsch, o il già nominato Buddy Lester. Oltre al cast, Jerry ha bisogno di un piccolo mondo che possa controllare completamente, come faceva Stanlio nelle sue comiche degli anni ’30. Fuori da questo, tutto si perde. E così capiterà a Jerry Lewis, che, fuori dalla precisione produttiva dei suoi capolavori anni ’60, non troverà più la stessa concentrazione e la stessa meravigliosa creatività. Diciamo che dagli anni ’70 Jerry Lewis non riuscirà più a ricostruire quel mondo meraviglioso che aveva potuto dare vita a un Buddy Love. Solo Scorsese capirà davvero il suo dramma. E, probabilmente, Rupert Pupkin.