Capoclasse dei giovani turchi, Matteo Orfini, eletto ieri presidente dell’assemblea del Pd al posto che fu di Romano Prodi, Rosy Bindi e Gianni Cuperlo, tre big con i quali non ha mantenuto precisamente un buon rapporto, è dalemiano (ex, o ’post’, comunque il dalemismo è una formazione politica come un tatuaggio, non si cancella), togliattiano, secchione, fautore del partito e persino un po’ dell’apparato (vedasi il Libretto grigio, manuale autoironico che circola in ambienti turchi), laico sulle correnti (la sua si vede ogni settimana al Nazareno). Archeologo di mestiere, quindi tendente allo scavo e diffidente della superficie.

Anti-blairiano. Scriveva nel 2012: «Non ci può essere una repubblica fondata sul lavoro se il lavoro è umiliato, sfruttato, negato. Questo è il paesaggio disegnato dalla crisi: un mondo nuovo, diverso, lontano da quello con cui si confrontò vent’anni fa la sinistra della terza via», «rispondere a questa situazione riproponendo come nuove idee vecchie di un ventennio servirebbe a poco», in Le nostre parole, il suo «libriccino» – lo chiamava così con finta modestia – dove scudisciava gli errori della sinistra degli ultimi vent’anni e allentava calci sugli stinchi a buona parte del gruppo dirigente del suo partito.

L’«altro Matteo» non potrebbe essere più altro da Matteo Renzi. Orfini, che ieri è stato eletto con 690 sì, è brillante ma tutt’altro che piacione. Infatti non è amato dalle altre ’sinistre’ del Pd: fra i 32 che si sono astenuti sul suo nome ci sono i civatiani ma anche un drappello di riformisti ex bersaniani. Stefano Fassina, che pure gli era molto vicino ai tempi in cui era con lui nella segreteria Bersani, ha spiegato che «è un dirigente di primissima qualità ma non risponde ai criteri di un figura super partes».

Perché Orfini è stato il primo, a sinistra, a stringere un rapporto con Renzi, anche quando era suo avversario alle primarie. E a schierarsi con lui quando il segretario scoccava il famoso «Fassina chi?». E a capire quanto utile potesse tornare al rinnovamento di un partito per anni retto «da un patto di sindacato» fra notabili. Pur essendo, e rimanendo, contrario alla «rottamazione». Il rinnovamento «non è un derby con le generazioni precedenti», ha detto ieri dal palco nel suo primo discorso da presidente. Nel suo «libriccino» anzi contro il giovanilismo demolitore arruolava il Gramsci dei Quaderni: «Una generazione può essere giudicata dallo stesso giudizio che essa dà alla generazione precedente». Un guaio, per Renzi.

Orfini e i giovani turchi diventano oggi ’ex minoranza’. Sono passati all’opposizione alla caduta di Bersani – ma anche con l’ultimo Bersani avevano smesso di andare d’accordo -. Lo ha ricapitolato lui stesso, ancora dal palco, ricordando tutte le volte che ha votato no (le larghe intese di Enrico Letta, Marini al Colle, l’abolizione del finanziamento dei partiti, l’Italicum): rigorosamente negli organismi dirigenti. Poi, in aula – è deputato alla prima legislatura – ha votato secondo le indicazioni del partito, ha spiegato, invitando i senatori dissidenti a «rispettare il patto che ci associa», ovvero alla disciplina.

«O siamo un partito o siamo un casino», aveva detto al manifesto, in un’occasione meno presidenziale. Lo aveva fatto anche venerdì sera alla festa di Leftwing, periodico della sua corrente, in un dibattito guardacaso proprio con il vicesegretario Lorenzo Guerini. Un dibattito in cui aveva snocciolato la sua fede partitista e la necessità di mettere mano alle primarie. Sventolando la maglietta di Togliatti, e auspicando «la fine dell’anticomunismo, anche a sinistra».