A otto mesi dall’elezione di Donald Trump, i democratici americani faticano a superare il trauma della sconfitta, come si è visto anche nelle quattro circoscrizioni della Camera dove si è votato per delle elezioni suppletive nelle scorse settimane: i democratici hanno fatto meglio del previsto ma hanno comunque perso. Il dibattito sul «che fare?» ha trovato una sede su Dissent, che nell’ultimo numero ha pubblicato due lunghi articoli di valutazione della presidenza Obama.
Secondo Gabriel Winant, «Otto anni al potere avevano rivelato quanto il partito fosse poco interessato nell’offrire miglioramenti ai lavoratori. I risparmi delle famiglie operaie sono stati prosciugati negli anni di Obama; la disuguaglianza di ricchezza tra le razze è cresciuta; i costi dell’assistenza sanitaria, della cura dei bambini e degli anziani, dell’istruzione e della casa sono andati alle stelle; l’incarcerazione di massa è continuata e i salari sono rimasti fermi; gli iscritti al sindacato sono diminuiti ulteriormente».

MICHAEL KAZIN risponde che «il partito democratico è sicuramente lontano dalla combattiva forza socialdemocratica che vorremmo. Ma la descrizione di Winant delle sue performance negli ultimi anni trascura i progressi ottenuti dai suoi leader elettivi e mostra poca comprensione dei motivi per cui non sono riusciti a fare di più. L’amministrazione Obama era “non interessata” a offrire miglioramenti ai lavoratori? Ma allora a quale classe appartiene la maggior parte di quei 20 milioni di persone che oggi sono coperti dall’assistenza sanitaria grazie a una legge, l’Aca (Affordable Care Act), finanziato in gran parte da imposte sui ricchi?»
Per andare a fondo della discussione non c’è strumento migliore del bel libro di Mario del Pero, Era Obama, pubblicato da Feltrinelli nelle scorse settimane (pp. 224, euro 18). Il volume copre con accuratezza gran parte dei temi, dalla politica estera all’ambiente, necessari a una valutazione degli otto anni alla Casa bianca del primo presidente afroamericano ma qui ci interessa la sua analisi di quella che rimane l’unica vera eredità della sua presidenza: la riforma sanitaria.

DEL PERO nota innanzitutto che Obama aveva scartato fin dall’inizio la possibilità di offrire un sistema universalistico di tipo europeo, o anche semplicemente una «opzione pubblica» in concorrenza con le assicurazioni sanitarie private. Questo rendeva la legge di estrema complessità perché la riforma «s’innestava su un sistema di suo macchinoso e farraginoso» che «s’ispirava esplicitamente a proposte come quelle avanzate dall’Heritage Foundation nei primi anni novanta».
Nonostante tutto, continua del Pero, «i dati di cui disponiamo sembrano indicare come molti degli obiettivi della riforma siano stati raggiunti. Lo possiamo misurare sulle due variabili fondamentali rappresentate dalla percentuale di persone prive di copertura e dall’impatto sui conti pubblici. La prima è scesa tra il 2013 e il 2016 dal 16,2 al 9,1 per cento del totale della popolazione adulta che non ha accesso a Medicare. Di molto cresciuto è il numero di persone che beneficiano dell’espansione di Medicaid (ben 14 milioni tra l’ottobre 2013 e il giugno 2015)».

OBAMACARE ha tuttavia un difetto strutturale che la rende molto vulnerabile: poiché si basa su incentivi alle assicurazioni sanitarie private, diversi da stato a stato, sostanzialmente Trump e il Congresso possono semplicemente sabotare il suo funzionamento diminuendo o eliminando gli incentivi che permettono alle compagnie di offrire piani di assicurazione sanitaria a un costo accettabile. Questo creerà una situazione caotica e insostenibile, aprendo la strada a una controriforma che ovviamente colpirà in primo luogo le fasce più deboli della popolazione. Obamacare dipendeva fortemente per la sua gestione da un governo con un atteggiamento positivo e tecnicamente competente: se, al contrario, a Washington c’è Trump la sua fine è solo questione di tempo.
A differenza del sistema pensionistico creato da Franklin Roosevelt, la Social Security, e dell’assistenza sanitaria per gli anziani e i poveri voluta da Lyndon Johnson, Medicare e Medicaid, che i repubblicani non sono mai riusciti a smantellare, l’Affordable Care Act resterà un tentativo ben intenzionato, ma troppo fragile e convenzionale nel suo approccio, per superare il test della durata.

QUESTO METTE in discussione l’intera eredità di Obama e la valutazione sui suoi due mandati: come giustamente osserva del Pero, il problema è «se quella di Obama sia stata una fase trasformativa, che lascerà un’eredità profonda e duratura», o no.
A giudicare dalla velocità con cui vengono smantellate le regolamentazioni introdotte da Obama nel settore finanziario, nella protezione ambientale e nella gestione dell’immigrazione sembra proprio che il «ciclone conservatore» stia già cancellando tutto ciò che – timidamente – era stato fatto negli ultimi otto anni. Questo pone anche il problema di cosa voglia fare un partito democratico che la sconfitta di Hillary Clinton ha lasciato senza leader e senza idee. Il libro di del Pero, forse troppo indulgente con Obama, rimane un ottimo strumento per guardare agli Stati Uniti di oggi in un’ottica di lungo periodo.