In Costa Rica sono 3.298,78 gli ettari dedicati alla coltivazione biologica delle banane, a fronte di 50 mila ettari destinati alla monocoltura intensiva, per lo più concentrati nelle mani di multinazionali e grandi aziende locali. Il modello di sviluppo agroindustriale ha lasciato dietro di sé profondi impatti ambientali, tra cui la distruzione delle foreste tropicali e la contaminazione delle falde acquifere con agrochimici. Il modello della coltivazione agroindustriale si è diffuso negli ultimi 150 anni attraverso l’espropriazione delle terre fertili. Gli indigeni che le abitavano sono stati costretti a spostarsi verso altopiani non idonei all’agricoltura. Questo modello ha comportato anche violazioni contro i diritti dei lavoratori: bassi salari, servizi sanitari scadenti, persecuzioni sindacali, sfruttamento di lavoratori privi di documenti. Le malattie che colpiscono le monocolture non devono sorprenderci, in quanto si tratta di un fenomeno biologico atteso in qualsiasi sistema agricolo che impone l’uniformità genetica dove la biodiversità sarebbe la norma. Sfidare la biodiversità tropicale con i deserti verdi delle monocolture è possibile solo attraverso l’uso intensivo di sostanze biocide. Per massimizzare la produzione di banane, è necessario allora spargere fungicidi una volta alla settimana. Il più utilizzato è il noto Mancozeb, l’agrochimico più importato in Costa Rica. Indicativi dell’impatto sulla salute della popolazione e dell’alto livello di contaminazione ambientale sono alcuni studi epidemiologici. L’Universidad Nacional ha condotto un’indagine su scolari dai 6 ai 9 anni nel cantone di Talamanca, trovando significative concentrazioni di Mancozeb nelle loro urine. Si è riscontrato come i bambini con una maggiore esposizione a queste sostanze avessero problemi di apprendimento. Un altro studio ha rintracciato nei capelli donne in gravidanza un alto contenuto di manganese (uno dei componenti del Mancozeb), il che suggerisce che i feti potrebbero essere esposti alla sostanza chimica tossica facilmente assorbita dalla placenta. Uno studio condotto nel 2005-2008 ha riscontrato tracce di pesticidi nel pelo dei bradipi di un’area circondata da coltivazioni intensive di banane e ananas. L’Universidad Nacional ha infine rilevato la presenza del fungicida clorotalonil nel 95% dei campioni di polvere raccolti da scuole e case residenziali nelle comunità dei Caraibi costaricensi vicino alle monocolture. Le moderne pratiche agronomiche industriali ignorano l’enorme potenziale della conoscenza indigena che dimostra come sia possibile vivere e produrre cibo sul pianeta senza distruggerlo. Mentre già da parecchi decenni, chi produce a livello agroindustriale ha dovuto sostituire la varietà tradizionale dolce Gros Michael, troppo suscettibile alla Malattia di Panama, con la Cavendish per poter mantenere il modello di monocoltura, oggi ci sono centinaia di famiglie indigene che producono la banana biologica Gros Michel senza bisogno di fitofarmaci, in sistemi agro-ecologici resilienti e ricchi di biodiversità. La produzione è facilitata dal fatto che le banane sono piantate all’interno della foresta, sotto alberi utilizzati per legname, frutta e medicinali. Quando la componente arborea è rispettata, si ottiene un microclima più fresco, che evita che le spore dei funghi sigatoka germoglino aggressivamente. Nei sistemi agroecologici si mantiene inoltre una maggiore distanza tra le piante di banane per creare un’ulteriore difesa nei confronti delle malattie. Adottando i principi dell’agroecologia, le comunità di Talamanca stanno creando delle foreste di cibo, un vero paradiso alimentare che segna un limite all’espansione delle monocolture chimiche.

Articolo tratto dal rapporto “Il futuro del cibo. Biodiversità e agroecologia per un’alimentazione sana e sostenibile”, scaricabile sul sito di navdanyainternational.org