«E pensai che comunque la mia vita era stata bella, e che ero sempre Mané Garrincha, l’ala destra del Brasile, il passerotto con un’ala sola, quinto figlio di Amaro e Carolina, storpio e calciatore». Così si esprimeva Garrincha, pseudonimo di Manoel Francisco Dos Santos, mito del calcio brasiliano, morto indigente in età ancor giovane all’età di 49 anni nel 1983, distrutto dalla cirrosi epatica e da un edema polmonare. Ora Antonio Ferrara, scrittore e illustratore, per il suo esordio nel graphic novel («Garrincha – L’angelo dalle gambe storte» Edizioni Uovo Nero, euro 15), rinverdisce la memoria di questo personaggio che entusiasmò le folle a cavallo degli anni 50 e 60 del secolo scorso. Considerato da tanti uno dei più grandi calciatori del mondo dopo Pelé (partecipò a tre edizioni dei campionati mondiali vincendone due), Garrincha fu un fenomeno in tutti i sensi a partire dalle sue proibitive (almeno così avevano diagnosticato i medici dichiarandolo invalido e sconsigliandolo di giocare a calcio) condizioni fisiche dovute probabilmente alla poliomielite: spina dorsale deformata, sbilanciamento del bacino, alcuni centimetri di differenza tra la lunghezza di una gamba e l’altra, per non parlare di uno strabismo. Ma tutto ciò non gli impedì di diventare quel che diventò. A Garrincha furono dedicati diverse elogi, sia giornalistici che artistici. Vinicius De Moraes gli dedicò la canzone «L’angelo dalle gambe storte» (da cui prende il titolo il libro di Ferrara) in cui tra l’altro diceva: «A un passo da Didi, Garrincha avanza / Incollato il cuoio ai piedi, lo sguardo attento / …Ha un presentimento; e poi si lancia / Più rapido del suo pensiero». Joaquim Pedro De Andrade, esponente del Cinéma Novo brasiliano gli dedicò nel 1962 il bel documentario «Garrincha, alegria do povo» (Garrincha, gioia del popolo) e in questo graphic novel l’omaggio al film di De Andrade è presente ma l’autore sposta l’attenzione più sul Garrincha privato, sui suoi rapporti umani e sulle sue debolezze, sui suoi dolori psichici e fisici a partire proprio da quello debilitante e decisivo del ginocchio: «E per non sentire il dolore mi facevo fare le infiltrazioni nel ginocchio ché giocare a pallone era tutta la mia vita. E poi ci fu il fallo di Zito, che con la scarpa mi beccò proprio sul ginocchio malato». Fu la fine di una carriera eccezionale. «Steso sul letto dell’ospedale, guardavo il cielo, guardavo le nuvole, e mi passarono negli occhi i miei tiri a effetto, i dribbling, i miei 14 figli».