Nella guida alle teorie del conflitto politico e sociale, realizzata da Luca Baccelli nel libro Il conflitto sociale (Futura editrice, pp. 217, euro 15), c’è un problema al quale sono in pochi ad avere trovato una soluzione. O meglio, di soluzioni ce ne sono molte, ma il problema resta lo stesso: com’è possibile che le eterogenee rivendicazioni ecologiste, femministe, anti-razziste, operaie e dei precari, i diritti civili e sociali, non riescano a convergere in una politica non diciamo «unitaria», ma almeno strategicamente lungimirante? E come mai, in più di un trentennio, non siamo riusciti a ritessere il filo che abbiamo individuato già con i movimenti «altermondialisti»?

QUESTE DOMANDE sono il rompicapo delle sinistre che hanno maturato una notevole conoscenza analitica del mondo, ma oggi sembrano impotenti davanti alla torsione verso un neoliberalismo autoritario e fascistizzante che sta avvenendo nella quarta fase della globalizzazione post-imperiale armata, nazionalistica e protezionistica. A questo punto, di solito, si pensa che tutto sia perduto. Baccelli, invece, risale la corrente del disincanto e trova una chiave. Nel suo bilancio critico analizza le posizioni diverse di Nancy Fraser, Axel Honneth, Ernesto Laclau e Chantal Mouffe, Luciano Gallino, Michael Hardt e Antonio Negri, tra gli altri. Al di là delle differenze tra queste, e altre interpretazioni, si intravede un filo conduttore, cioè la convergenza delle lotte; dell’articolazione delle politiche della liberazione con quelle economiche, sociali, ecologiste e politiche; della creazione intersezionale di reti che agiscono su scala globale un conflitto unico e plurale allo stesso tempo; dell’insorgenza, ovvero della rottura con le gerarchie e delle appartenenze identitarie al fine di comporre nuove soggettività e nuove istituzioni.
Anche in Italia, un discorso di questo tipo è stato declinato dal collettivo di fabbrica ex Gkn (penso al libro Insorgiamo, Alegre). Istanze simili sono state praticate dal punto di vista trans-femminista nel movimento Non una di meno. A tale proposito il piano femminista contro la violenza maschile sulle donne e la violenza di genere è un programma politico di grande valore.

LO STESSO si potrebbe dire nell’ambito dell’ecologia politica dove le medesime istanze sono state declinate da Michael Lowy (Ecosocialisme: L’alternative radicale à la catastrophe écologique capitaliste, Mille et une nuits), da Terre et capital. Pour un communisme des vivants di Paul Guillibert (Amsterdam éditions) o, in Italia, da L’era della giustizia climatica di Paola Imperatore e Emanuele Leonardi (Orthotes).
Una simile ricchezza teorica è la prova della vivacità politica e intellettuale troppo spesso trascurata e denigrata. Non lo è nel volume di Baccelli che inquadra il dibattito nel paradigma machiavelliano della politica. Con questo egli intende che il conflitto è ineliminabile. E che tutte le sue attuali declinazioni vanno pensate nella prospettiva di «tumulti che hanno una funzione produttiva». Cioè potrebbero produrre nuove istituzioni, nuove relazioni tra i sessi, i viventi umani e «non umani». Partendo da Machiavelli secondo il quale il conflitto è praticabile quando produce «leggi e ordini in beneficio della pubblica libertà». Il problema non è che la teoria non si traduce in pratica. Anzi, queste idee sono nate dalle lotte, anche nel Nord, e sicuramente in altre latitudini del pianeta. Questa è anche l’importanza della prospettiva «decoloniale» oggi. Ma allora perché tali lotte non assumono un carattere insorgente? Forse perché il conflitto è inteso in senso unilaterale e non trasversale. Esso è compreso solo contro chi opprime, sfrutta, distrugge, violenta.

PIÙ RARAMENTE si parla di un altro conflitto parallelo, e meno conosciuto, che avviene all’interno delle soggettività che dovrebbero unirsi. È il conflitto tra chi vuole istituire una gerarchia tra le lotte (viene prima l’anti-capitalismo o l’ecologia?) e chi pensa a una «convergenza». È il conflitto tra chi contrappone i «diritti civili e sociali» e chi si oppone alla deviazione del desiderio verso la «paura delle masse». È il conflitto tra chi evoca il terrore neoliberale di fallire, dunque meglio non fare niente, e chi invece non si arrende a ciò che Gramsci avrebbe chiamato «morfinismo di massa». Coniugare la critica e la clinica alle prassi servirebbe finalmente a rovesciare il conflitto passivo in uno attivo, cioè la condizione che oggi impedisce di fare il salto ed essere all’altezza del problema.