Se l’illuminismo ha vinto molte battaglie, ma a quanto pare ha perso la guerra, il pensiero calcolante ha stravinto su tutti i fronti. Ogni cosa è calcolo, nel senso che più niente sfugge alle procedure di matematica elementare dell’Internet. Le cose, le economie, le società, gli individui. Si cerca l’informatica, il digitale, per sentirsi sicuri, per esorcizzare il timore dell’immaginario. Ma l’immaginario è anche ciò che nasconde e accoglie.

MARSHALL MCLUHAN aveva sviluppato l’idea dell’immaginario con la teoria della Dew Line, Distant Early Warning Line, ovvero di una capacità propria dell’artista, di «immaginare» il presente anticipando gli avvenimenti prossimi. L’artista sarebbe così l’individuo in grado di cogliere i mutamenti in atto, l’individuo che non ha timore di uscire dalle narrative e discipline del suo tempo.
In questo senso il libro di Francesco Monico Fragile, un nuovo immaginario del Progresso, edito da Meltemi (pp. 512, euro 30), è un testo che potremmo definire sull’immaginario artistico. Tuttavia, sarebbe riduttivo definirlo così perché è un testo di filosofia della tecnica, un testo di Studi culturali ma anche e sopratutto un testo che immagina un presente ancora da narrare e lo fa sostenendo che la narrazione del XX secolo e addirittura di tutta la modernità, è finita e che nel terzo decennio del XXI secolo (2020-2030) avverranno mutazioni così radicali da far parlare di una vera e propria mutazione antropologica.

Inoltre in Fragile c’è la presentazione dell’ipotesi dell’Homo Fictus, ovvero di un’analisi bioculturale che affonda le origini nel darwinismo letterario ma che lo supera in un modello operativo molto viabile per descrivere un’antropologia per un XXI secolo caratterizzato dalla cultura delle immagini e delle narrazioni digitali omnipervasive, istantanee e multimediali.
Un modello per poter operare nella nuova cultura delle ipernarrazioni contemporanee. L’ipotesi è che l’umano sia essenzialmente «vita narrativa» e che l’essere umano possa essere descritto come generatore di esperienze immaginarie, un vero e proprio processo di creazione di un mondo (molto utile evolutivamente) parallelo a quello reale.

QUESTA VISIONE diventa centrale oggi di fronte a una battaglia di giganti, tra alfabetizzazione e digitalizzazione, tra literacy e «datacy», ovvero il regno dei calcoli elementari che noi chiamiamo dati. Ognuno di essi è il terreno di una serie di norme, formati e valori diversi, se non addirittura opposti. E, naturalmente, la digitalizzazione calcolante è sempre vincente, praticamente senza possibilità di errore.

LA GRANDE OPPOSIZIONE per quanto riguarda noi esseri umani è tra la privacy e la publicy, ovvero questa inscindibile mescola di privato e pubblico di cui siamo ormai tutte e tutti vittime. L’implicazione automatizzata del senso nel calcolo binario sta eliminando la privacy, invadendo l’interiorità psichica degli individui. E questo è il nostro primo problema. Il secondo è la perdita dell’identità privata, che è fragile quanto la privacy, perché entrambe costituiscono l’autonomia della persona. Il terzo – e più grave – problema è lo spostamento del senso fuori dal territorio operativo della comunicazione umana.

Se il senso è sempre stato la mediazione principale di tutte le forme di comunicazione tanto umana quanto animale per ottenere un effetto di reciprocità specifica, con l’uso degli algoritmi questo non è più il caso. Alla datacy non interessa il senso ma solo l’efficienza del procedimento, ovvero la verifica dell’astrazione matematica, il processo automatico e l’efficacia del calcolo.

La datacy non pensa e non sa nulla, ma conta. Non essendo organica procede come un virus, penetra e riordina tutto, ma senza dare spiegazione. Naturalmente, spetta alle persone dare un senso, non alle macchine. Ma per la prima volta nell’evoluzione non solo dell’umano, ma anche di tutte le specie animali, comunicare non richiede più né l’obbligo di dare senso, richiede solo protocolli di calcolo. E perché in tanti affari umani, questi protocolli superano altamente il giudizio umano, l’intelligenza artificiale sta prendendo il sopravvento in tutto ciò che di fondamentale esiste nella società civile.

Ed è qui che approdiamo all’essenza della crisi epistemologica che si sta verificando in questo momento in tutte le culture del mondo: ormai è sufficiente che le persone, o gli algoritmi, che hanno l’autorità per fare un’affermazione, per quanto contraria a fatti noti e al semplice buon senso, che ciò che sarà creduto o a tutti gli effetti accettato è il contenuto dell’affermazione e non la sua relazione con i fatti. Questo, negli studi semiotici, è chiamato «la perdita del referente», cioè quando l’affermazione (chiamata il «significante») porta direttamente alla sua interpretazione (chiamata il «significato») senza essere automaticamente incrociata con le prove (chiamata il «referente»). Questa tendenza elimina la necessità di un controllo della realtà e favorisce un senso caotico.

Se quanto sopra non bastasse è l’idea stessa di verità oggettiva a essere in crisi perché lo status stesso di obiettività sostenuto e reso oggettivo da prove scientifiche è stato messo in discussione ben oltre l’accettazione da parte dei negazionisti di qualsiasi tipo di affermazione.

Così il quarto problema è la moltiplicazione esponenziale delle fake news e deep fake che fanno sparire l’obbligo di verificare la credibilità di quel che si dice.

APPROFITTANDO di questo indebolimento del ruolo del senso, la pandemia del Covid-19 ha provocato un’infodemia di notizie false. Le notizie, i report, le affermazioni, le contestazioni, i tweet deliberatamente falsi che il sistema dell’Internet ci consegna incontrano un pubblico che li accetta, non necessariamente come veri, ma come «giusti», mettendo da parte la verità come irrilevante. Forse meno della metà dei politici mondiali credono davvero a tutto questo. Una cosa è certa: pochi di loro controllano e ancor meno fanno verificare i contenuti. La verità è diventata estremamente fragile nella cacofonia globale delle notizie false.
Quindi mettendo insieme, notizie false, perdita di identità e di autonomia, fuga dall’obiettività negli algoritmi, dissolversi del referente semiotico come principio guida della comunicazione umana, diviene chiaro che la datacy sta vincendo il combattimento. Possiamo vivere senza senso? Non lo credo.

Fragile ci dà una risposta importante, quella di promuovere l’immaginario come fonte di soluzioni. Gli uomini hanno un immaginario, le macchine no, però l’immaginario degli uomini dipende non solo dall’immagine, ma anche dal senso e dal linguaggio. Ormai la literacy non può sperare di vincere, però il suo modello cognitivo non è condannato a sparire. Una parola felice di Marianne Wolf, grande esperta americana dell’impatto della lettura, biliteracy, ci dà la direzione. Se vogliamo continuare a immaginare, serve una soluzione epistemologica ibrida, permettendo alla literacy e alla datacy di collaborare invece di lottare.

PER PREPARARSI a questa nuova epistemologia bisogna accettare di decostruire l’immaginario della modernità e aprirsi a una Fragilità che ci permetta di recuperare, sondare, creare dei nuovi concetti operativi che ci permettano di riconfigurarci per affrontare quella che Monico definisce «l’epoca del compiersi della tecnica». Epoca che proprio attraverso il concetto di Homo Fictus reintroduce l’immaginario nell’arena delle forme di pensiero utili poiché esso diventa non un requisito per semplicemente entrare nel nuovo mondo tecnologico ma un requisito per entravi senza la certezza di rimanervi prigionieri.