Nel 2002 Lea Vergine annotava su Alias che l’opera di Lucio Del Pezzo (Napoli 13 dicembre 1933 – Milano 12 aprile 2020) evidenziava «una dimensione tardoromantica della comunicazione visiva». Si riferiva agli anni di «Documento Sud» e del Gruppo 58, condivisi con Guido Biasi e Mario Persico, quando assemblava dadaisticamente ex-voto e consunti reperti del folclore partenopeo dentro inquieti altaroli laici. «Ti trovo lì un oggetto, degli oggetti – avrebbe scritto a Enrico Crispolti in occasione di Alternative Attuali 1962 e ne vien fuori la mia bella natura morta, ove si sedimentano le materie e gli oggetti dell’uomo al di là del loro uso quotidiano di un tempo».

NON AVREBBE PIÙ SMESSO di creare assemblaggi, pur passando da una vitalità organica e perturbante a un progressivo ritorno all’ordine ludico e straniante. Dopo il trasferimento a Milano nel 1960 lo stipo si sarebbe trasformato in mensola, poi in schedario tassonomico e alchemico: accanto alla curiosità antropologica per un mondo tragico e visionario si era fatta strada la chiarezza grafica di un mondo coloratissimo e senza ombre, complice forse l’incontro con la «pop» americana, fra i dipinti di Johns e le scatole delle meraviglie della Nevelson, mentre transitava dalla galleria di Arturo Schwarz a quella di Giorgio Marconi. È proprio presso quest’ultima, alla cui scuderia l’artista resterà sempre fedele, che Gillo Dorfles conierà nel 1966 la felice definizione di «costruttore di quadri moderni».
Del Pezzo, infatti, non ha mai rinunciato al lavoro artigianale: all’iniziale prelievo di oggetti preferirà la loro fabbricazione manuale (sintetica e astraente), tornendo e limando pazientemente ogni singolo elemento di questo suo alfabeto visivo, da montare poi secondo una logica di variazioni e di percezioni illusorie, fra elementi in rilievo e immagini soltanto dipinte, sulla soglia fra realtà tattile e illusione visiva.

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TUTTO QUESTO stava dando vita a un gioco serio, che andava a pescare nella dimensione inconscia non più surreale ma metafisica, tanto da attirare l’attenzione di Maurizio Fagiolo Dell’Arco – diviso allora fra De Chirico e Paolini – e il poeta Roberto Sanesi, che stava licenziando l’antologia dei poeti metafisici inglesi del Seicento. I suoi solidi geometrici, i triangoli e i bersagli, dunque, non potevano essere solo forme pure, ma acquisivano valenze simboliche, trasformandosi in segni e geroglifici cifrati di sapore esoterico.

ERA IL PUNTO D’INCONTRO, scriveva sempre Dorfles, del «denso e brulicante sottofondo emblematico, vivo nella tradizione napoletana di cui oggi non appare quasi nulla ma che ieri aveva certo ispirato le conturbanti «tavole del ricordo» e creato «tabernacoli» strapaesani (folti di memorie ancestrali), col rigore costruttivista che il lungo soggiorno milanese e lo studio attento dell’arte astratta europea gli aveva appreso».

SE AGLI ESORDI erano stati tempi «poco pazienti e troppo dediti all’immediatezza», ricordati in un’intervista a Enrico Baj del 1985 (riedita da Magonza nel 2011), la disciplina della campitura smaltata, il ritmo pausato degli oggetti paratatticamente accostati accompagnava in una dimensione rarefatta, pronta al salto di scala ambientale. Ne era stato teatro, nuovamente, lo Studio Marconi con Sagittarium del 1969 – con un remake nel 2014 – acutamente immortalata da Enrico Cattaneo.
Aumentati di scala, i suoi stipi diventavano grandi strutture spaesanti: «Del Pezzo – aveva scritto allora Tommaso Trini – s’inventa neoclassico prima ancora che i vari super-realismi accolgano nei loro schemi linguistici il revival stilistico».