Carlo Calenda, neoeletto segretario di Azione, il partito da lui stesso fondato, è solito, nelle non rare occasioni che i media gli concedono di presentarsi al grande pubblico, affermare i suoi ideali politici di riferimento.

Con la sicura saldezza che è nel carattere dell’uomo politico, pratico e deciso come si conviene al capitano d’industria che è stato, egli afferma di riconoscersi nei principi della rivoluzione liberale propugnata da Piero Gobetti, prima che un’aggressione fascista lo riducesse in fin di vita, e nel liberalsocialismo dei fratelli Carlo e Nello Rosselli, assassinati dai sicari di Mussolini in Francia. Non fa mistero della sua ambizione di volersi ricollegare idealmente al Movimento Giustizia e Libertà e al Partito d’Azione, che hanno tratto origine da Gobetti e da Rosselli e hanno trovato massima espressione nel Manifesto elaborato nel 1941 da Ernesto Rossi e da Altiero Spinelli durante il confino sull’isola di Ventotene. “Azione” egli stesso scrive “non è un nome casuale o scelto per ragioni di marketing”.

Calenda certamente sa che gli azionisti si dicevano tra loro compagni al pari di quanto facevano socialisti e comunisti, insieme ai quali rappresentarono il nerbo della Resistenza italiana durante il Ventennio e nella guerra di Liberazione. Non gli spiacerà, dunque, se ci rivolgiamo a lui, d’ora innanzi, come al compagno Calenda.
La sua ambizione è, però, anche più ampia di quella che abbiamo sin qui rappresentato perché, come ancora lui stesso scrive, “le nostre radici culturali e politiche sono quelle del liberalismo sociale e del popolarismo di Sturzo” essendo evidente, sostiene, la necessità di una sintesi tra le due.

Il compagno Calenda si assume così un compito, invero, impegnativo e improbo. Dovrà, infatti, esser capace di conciliare l’obbedienza a Santa Romana Chiesa del politico di Caltagirone con l’irriducibile richiesta azionista di abolire il Concordato in quanto frutto dell’alleanza con il fascismo di un’istituzione religiosa alla ricerca di esenzioni e di privilegi. Ma dovrà anche conciliare la proposta degli estensori del Manifesto di Ventotene di nazionalizzare (senza riguardo per i diritti acquisiti) le imprese grandi per ampiezza dei capitali investiti o per numero degli occupati con l’antistatalismo di Sturzo, la rivoluzione europea e socialista con la visione di uno Stato che deve restare fuori dall’economia.

Il compagno Calenda ha, tuttavia, dalla sua l’aver già dato prova di idee molto chiare. Dopo aver dichiarato di non potersi alleare per comprensibili ragioni valoriali con Giorgia Meloni, farà un piccolo strappo sostenendo la riconferma di Marco Bucci a sindaco di Genova in compagnia di Fratelli d’Italia. E al primo congresso nazionale del suo partito ha fatto una scelta netta. Ha escluso dalla partecipazione il Movimento 5 Stelle e Fratelli d’Italia. Non li ha invitati, immaginiamo, perché ritiene che Matteo Salvini dia maggiori garanzie di democrazia ed europeismo di quante non ne possa dare Giuseppe Conte e che Forza Italia sia più attenta alle disuguaglianze sociali di quanto non lo sia il Movimento 5 Stelle.

Nel suo discorso conclusivo, dopo essere stato eletto per acclamazione dai delegati giunti da ogni regione d’Italia, ha dichiarato nato il terzo polo del riformismo italiano che egli si incarica di portare al 20% dei consensi. Un canale privilegiato di dialogo è stato aperto con il suo ex partito, il Pd, e con Forza Italia ma la porta è rimasta aperta anche a Renzi, definito “il miglior presidente dai tempi di De Gasperi”, purché la smetta di prendere soldi da uno stato straniero, essendo questo all’evidenza il solo neo sul volto nobile del fondatore di Italia Viva. Auguri compagno Calenda!