I mercati contadini come luogo di aggregazione e mobilitazione politica. È il caso dell’evento organizzato recentemente, presso la Città dell’Altra Economia di Roma, da Navdanya International, Acrase, Mercati Contadini Roma e Castelli Romani, in collaborazione con la Regione autonoma della Sardegna: la piccola e media produzione locale, come luogo di lavoro dignitoso, di produzione di qualità e di scambio sociale e culturale, si sta ponendo sempre più come un contro-modello rispetto ai dogmi della grande produzione e distribuzione industriale che sfrutta i lavoratori, fornisce cibo dal basso valore nutritivo spesso contaminato da pericolosi agenti chimici, e disgrega comunità disconoscendo, al contempo, il valore delle culture locali. Una vera corsa all’uniformità produttiva e all’omologazione del pensiero supportata, a livello politico, dall’imposizione dei trattati commerciali di nuova generazione come il Ceta, che il governo giallo-verde sembra intenzionato a resuscitare nonostante le promesse sottoscritte in campagna elettorale.

L’incontro fra i produttori locali sardi e laziali, nell’ambito del festival Cibo per la salute, è divenuto immediatamente atto politico, un atto di resistenza alimentare per citare Franco Berrino. Perché in gioco non c’è solamente il nostro cibo e il nostro benessere, ma l’intera sfera delle nostre relazioni sociali e culturali che rischiano di essere triturate all’interno di grandi centri commerciali oramai uguali in tutto il mondo. Si tratta di una modalità di controllo da parte degli attori della grande distribuzione interessati a omologare e quindi controllare i comportamenti dei consumatori per poter trarre i massimi profitti da quello che, all’indomani della grande crisi dei subprime, è divenuto il più grande oggetto di speculazione delle borse di tutto il mondo: il cibo.

L’esperienza della Sardegna è esemplare: circa l’80% dell’approvvigionamento alimentare dipende dall’import, ovvero dalla grande distribuzione industriale. Un paradosso, se si considera che la Sardegna era considerata uno dei granai d’Italia fino a prima degli anni ’70, prima della Rivoluzione Verde che ha imposto i dogmi di Big Food. La sovranità alimentare rappresenta, da questo punto di vista, un obiettivo concreto da riguadagnare per intere aree geografiche e comunità stanche di dipendere dai diktat delle grandi multinazionali del cibo. Da un paese come l’Italia, dove, secondo dati Istat, quasi il 60% delle famiglie fa la spesa ai supermercati e circa l’11% nei discount, arrivano anche buone notizie: l’agricoltura biologica è in crescita costante, mentre nelle città iniziano a imporsi mercati contadini, gruppi d’acquisto solidale e punti vendita di prodotti tipici, locali e naturali.

I mercati contadini si tramutano in luoghi di aggregazione e mobilitazione, di resistenza. Non è un caso che l’evento romano ha chiamato a raccolta non solo agricoltori, ma medici, avvocati, nutrizionisti, agronomi. La presentazione del manifesto Food for Health, curato da Navdanya International ed edito da Terra Nuova Edizioni, ha rappresentato l’occasione di mettere in connessione le crisi sanitarie, del clima, dell’acqua e della biodiversità sulla base di dati scientifici. Il sistema alimentare industriale è uno dei principali responsabili di queste crisi epocali e il manifesto non si limita ad esporre questa evidenza ma si spinge oltre delineando le alternative. L’esempio del Sikkim, con cui Navdanya ha collaborato per raggiungere l’obiettivo del 100% biologico attraverso le pratiche dell’agroecologia, è diventato paradigmatico ed è approdato recentemente sia alla Fao sia al Parlamento italiano. La politica deve ora uscire allo scoperto e fermare quei trattati commerciali che danneggiano le piccole produzioni locali per poi interrompere il flusso della quasi totalità dei sussidi pubblici, oltre 60 miliardi ogni anno, erogati a favore dell’agricoltura convenzionale.