C’era una volta in Afghanistan una grande foresta naturale di pistacchi che copriva 90.000 ettari nelle province di Herat e Badghis e centinaia di migliaia di ettari in tutto il paese. Ma siccome la guerra uccide anche gli alberi, questo patrimonio vegetale nei decenni si è fortemente ridotto. «Tante le cause: abbandono, trasformazione d’emergenza in legna da ardere, siccità, interferenze della politica e perfino l’acquisto delle radici da parte del Pakistan» spiega il professor Faiz Abdullah, già docente di agraria e rettore dell’università di Herat. Dal 2021 si trova in Italia e lavora per Slow Food, una collaborazione iniziata nel 2004. In questi giorni è a Terra Madre con altri afghani.

Dopo venti anni di «cooperazione» occidentale e un anno di governo talebano, l’Afghanistan non è uscito dalla penuria.

Oltre il 90% della popolazione si trova in una situazione di insicurezza alimentare ed è costretto a ricorrere alle razioni di emergenza distribuite da varie agenzie. Il cibo quotidiano non va molto oltre il pane, oltre al tè zuccherato. La disoccupazione, la povertà, la disperazione, la guerra interna, la forte presenza delle succursali dell’Isis e di al-Qaeda oltre ai talebani, l’abbandono del paese da parte dei giovani, la migrazione dei contadini verso le città, le siccità ricorrenti e lo stress sociale sono i fattori di base che hanno portato alla fame assoluta e a un’estrema insicurezza sociale. In tutto il paese.

L’agroecologia è una soluzione praticabile in Afghanistan? Orticoltura, frutteti, coltivazione di cereali e legumi: ci sono acqua a sufficienza, input naturali, conoscenze, filiere di trasformazione, volontà politica?

L’agroecologia è il modo migliore per preservare la biodiversità: affronta il problema dei cambiamenti climatici, sviluppa la sovranità alimentare e assicura una sicurezza alimentare sostenibile. Recentemente, nel campo dei cereali, degli ortaggi, della frutta e delle piante medicinali abbiamo ottenuto molti risultati grazie al collegamento fra ricercatori e attività sul campo. Nell’area di Herat, la collaborazione tra la facoltà di agraria e il dipartimento dell’agricoltura era stata positiva. Ma dopo la ripresa del potere da parte dei talebani non ci sono fondi per lo sviluppo, nessuna strategia.

Quale ruolo hanno le donne in agricoltura e quale evoluzione ha conosciuto?

Nelle aree rurali, il 75-80% delle donne è impegnato in attività agricole; negli ultimi 20 anni sono avvenuti molti cambiamenti nei villaggi. Si sono sviluppate industrie artigianali e per la trasformazione. Tante donne sono diventate esperte, nei vari segmenti delle filiere agricole.

Sono (o erano) molte le studentesse in materie agrarie a Herat?

Il 75% degli afgani vive nelle aree rurali e il 67% ha meno di 20 anni. L’università di Herat contava 21.217 studenti (il 70% dei quali di famiglia contadina). Negli ultimi due anni (2020 e 2021) il 52% erano ragazze. La facoltà di Agraria contava quasi 2800 studenti, fra i quali 812 ragazze, in gran parte in economia agraria e divulgazione agricola, orticoltura e tecnologia alimentare. A Scienze veterinarie c’erano 200 studentesse. Oggi gli studenti sono al 75% maschi e al 25% femmine e molti hanno lasciato l’università quando i talebani hanno cambiato i programmi di studio in materie impostate sulla religione. Su 498 professori, 213 erano donne. Ora quasi la metà, soprattutto donne, ha lasciato l’incarico.

Lei collabora con Slow Food dal 2004. Quali progetti avete sviluppato?

Tanti, in diverse province: dal presidio dell’uva passa di Abjush all’introduzione di 60 prodotti nell’Arca del gusto, dalla creazione di orti scolastici in oltre 20 scuole alla rete dei giovani di Slow Food in Afghanistan, dalla realizzazione di decine di seminari su diversità alimentare e biodiversità alla creazione di un’associazione nella parte occidentale del paese, con 18.000 membri.

Ha lasciato l’Afghanistan il 5 settembre 2021. Si può lavorare dall’Italia per il suo paese?

Ho una forte rete di contatti con i miei colleghi. Slow food è come un albero in Afghanistan, con fitte radici sotterranee, tanti rami, un forte fusto, migliaia di foglie e miliardi di cellule. Il movimento non può essere fermato. Possiamo continuare a portare avanti i nostri progetti e anche l’empowerment con le donne rurali, per la sicurezza alimentare e lo sviluppo sostenibile.

Nel mondo dei presidi in Afghanistan, conosciamo l’uva passa di Herat e il fico secco giallo. Sono per il consumo locale? C’è la possibilità di esportarli attraverso canali equi?

Prima dell’inizio della guerra l’Afghanistan era il principale esportatore di uva passa nel mondo: nell’Urss, negli Usa, in Germania, India. Poi, a causa dei fattori di cui sopra e anche della mancanza di conoscenze sulle tecnologie post-raccolta, oltre che della crisi del mercato, la nostra produzione si è ridotta. Ma dopo il lavoro degli ultimi 20 anni con i produttori, abbiamo quasi 80 prodotti: pistacchio, vari frutti essiccati, noci. Per la popolazione locale, adatti all’export.

E come sviluppare le foreste fruttifere?

Nel 2016 la facoltà di agraria dell’università di Herat aveva presentato al ministero dell’agricoltura il concetto di Join Forest Project Management (Jfpm) per la gestione e conservazione forestale partecipativa locale. E’ rimasto sulla carta a causa delle successive vicende politiche e delle défaillances a livello dei ministeri e delle università.