Nel 1941 Henri Matisse si sottopose a un intervento chirurgico molto delicato a causa di un tumore all’intestino. L’operazione riuscì, ma per Matisse la vita cambiò radicalmente; si trovò in una condizione che oggi definiamo di «non autosufficienza». Costretto per molto tempo a letto, gli divenne complicato anche mettersi al cavalletto a dipingere. Aveva sempre bisogno di un’infermiera, per di più non poteva contare né sulla moglie Amélie né sulla figlia Marguerite (nata da un suo amore precedente il matrimonio) perché tutt’e due impegnate nella resistenza e costrette a stare nella clandestinità.

Matisse morì nel 1954: quindi per ben tredici anni convisse con limiti e problemi fisici davvero faticosi. In realtà, se si passa in rassegna il catalogo di questa ultima parte della vita di Matisse, è praticamente impossibile trovare anche il minimo riscontro di quella sua situazione, sia per quanto riguarda il numero delle opere prodotte, sia, soprattutto, per la evidente felicità che le permea. In un secolo che aveva attinto a piene mani da ogni patologia, reale o immaginata che fosse, la parabola di Matisse appare così come qualcosa di stupefacentemente fuori copione: seppe allargare sempre l’orizzonte, proprio mentre la vita procedeva a imbuto chiudendogli via via gli spazi praticabili; trasformò i limiti impostigli in spazi di una nuova libertà.

Se il cavalletto non era più alla sua portata, iniziò a dipingere tagliando nel colore: muoveva le forbici dentro i grandi fogli che aveva accuratamente fatto preparare a tempera dalla sue assistenti, quasi danzando con le mani. Se non poteva più recarsi in quei favolosi angoli di mondo dove si era alimentato di immagini e colori, sempre con carta e forbici aveva realizzato nelle grandi stanze dell’Hotel Regina, a Cimiez, appena sopra Nizza, delle visioni che ricreavano quei contesti reali.

Da queste premesse si può intuire come la grande mostra tutta dedicata ai papiers gouachés découpés di Matisse – approdata ora al Moma dopo la prima tappa estiva alla Tate Modern di Londra: Matisse. The Cut-Outs, fino al 9 febbraio 2015 – costituisca per il visitatore un’immersione in una sorta di felicità inimmaginata e inimmaginabile. Il Matisse di questi ultimi anni procede come in uno stato di grazia in cui anche il frammento e lo scarto conservano lo splendore della pura e gratuita invenzione. Tanto che la ripetizione dei motivi non sfiora mai la saturazione.

Matisse sperimentò per la prima volta le potenzialità dei cut-outs in occasione del laborioso cantiere del murale americano per Albert Barnes. Avendo a che fare con uno spazio molto complesso, con quelle tre grandi lunette collegate tra di loro, e faticando a trovare la soluzione, aveva fatto ricorso all’escamotage di ritagliare le figure per poi muoverle su una maquette e trovare così i giusti equilibri. Si trattò di un approccio quindi strumentale ai papiers découpés, che però aveva rivelato a Matisse le potenzialità di un metodo che andava oltre la pittura. Siamo agli inizi degli anni trenta e i fogli li vediamo tagliati con una certa sommarietà, spesso scomposti in più elementi per facilitare spostamenti e sperimentare soluzioni diverse.

È con gli anni quaranta, cioè quelli che fanno seguito all’intervento chirurgico, che i papiers découpés si ripresentano a Matisse come alternativa alla pittura da cavalletto, che ora gli riusciva non solo difficile ma anche concettualmente superata. Le prime esperienze sistematiche sono funzionali alle copertine progettate per l’amico editore Tériade e per la sua rivista «Verve». È proprio Tériade nel 1943 a proporre a Matisse di andare oltre e di realizzare un libro. Nacque così Jazz, probabilmente il più bel libro d’artista pubblicato nel Novecento. In mostra il libro è presentato nella versione stampata nelle vetrine, mentre sul muro sovrastante scorrono gli originali, che è molto raro vedere e che sono custoditi al Beaubourg. In questo modo si può capire la ritrosia di Matisse di fronte all’idea di tradurli in stampa. Matisse infatti non ritaglia semplicemente dei fogli colorati, ma ritaglia il colore. I fogli originali mostrano una corposità, conferita dalla stesura delle tempere, che nella stampa si smarrisce. Si perde spesso la direzione della pennellata e quel mix di colore e di granuli di bianco che dà un peso specifico diverso alle immagini. Del resto il nome esatto della tecnica è chiaro: papiers gouachés decoupés. Dove quel gouachés non è affatto aspetto secondario… Si crea anche qualche confusione tra i bianchi, che negli originali non sono mai uguali tra il bianco del foglio di supporto e quello dei papiers inseriti nella composizione.

Tra gli originali e la stampa c’è poi un altro elemento distintivo: sono le pagine con testo scritto a mano, che Matisse inserisce per dare ritmo e respiro al libro. È un testo quindi con funzioni riempitive: lui stesso lo paragonava alla paglia che si mette nelle scatole di vino per proteggere le bottiglie. Ma Matisse lo trasforma in un magnifico prontuario per aspiranti artisti, con una sequenza di illuminazioni che alla fine diventano chiavi di lettura, libera e liberante, delle stesse immagini.

Nel 1942, confidandosi con Louis Aragon, Matisse aveva rivelato di sognare che in paradiso gli sarebbe stato concesso di realizzare dei grandi affreschi. Nel 1946, costretto a passare l’estate nel suo appartamento parigino, decide di creare un paesaggio desiderato ma per lui irraggiungibile, lavorando sulle memorie del viaggio realizzato a Tahiti nel 1930. È stata la sua assistente di questi ultimi anni, Lydia Delectorskaya, a raccontare la genesi di queste grandi composizioni di quasi quattro metri, realizzate su carta beige con agili forme di creature marine ritagliate invece nel bianco. Matisse ne ricavò poi delle serigrafie, ma gli orginali esposti evidenziano il metodo che aveva seguito: le sagome bianche infatti sono punteggiate da fori di spillo, in quanto Matisse le spostava sino a trovare i giusti rapporti.

Con il trascorrere degli anni l’agilità di Matisse cresce in modo inversamente proporzionale ai limiti fisici a cui era costretto. Nel 1948 si butta a tempo pieno nel cantiere della cappella di Vence, lavoro scaturito grazie alla relazione con quella che era stata la sua prima infermiera, Monique Bourgeois, diventata poi suora domenicana. Matisse cerca una sorta di «paradiso» delle immagini. E dimostra di poterlo trovare sia tracciando a segno sicuro la grande Madonna con il bambino, realizzata su piastrelle per la cappella, sia ritagliando nel blu il grande fregio con cui trasformò una stanza del Regina in una piscina – Swimming pool, del 1952, è un capolavoro di sedici metri che doveva servire da maquette per una ceramica, ed è presente solo nella tappa del Moma perché lì è custodito ed è, evidentemente, intrasportabile.

Il paradiso di Matisse naturalmente non poteva non ritrovarsi popolato di corpi e di presenze femminili. A parte la serie magnifica e celebre dei quattro Nudi blu (dove la piattezza pura del colore propone un rapporto nuovo con la corporeità), in mostra è presente un assoluto capolavoro come Zulma (1950), un ritratto di una donna in piedi, tra due tavolini. C’è una sintesi di tutto Matisse in questo gioiello: la sagoma blu del corpo in questo caso si apre al centro, liberando una forma quasi color carne. È come una zip leggera, che si spalanca a sorpresa per svelare tutta la sensualità di questa “dea” planata nello studio di Matisse.

Si potrebbe pensare che questa lunghissima danza con le forbici e i colori sia stata come una felice partita giocata però da Matisse su un campo a parte. La mostra rivela che la situazione è esattamente opposta, e che Matisse sta in realtà giocando una partita d’avanguardia. Non è un caso che Clement Greenberg, il grande teorico della nuova arte americana, già nel ’48, su «Partisan review», riconoscesse come Matisse avesse colto per primo la crisi della pittura da cavalletto. La pittura con lui rompeva definitivamente la convenzione del perimetro, si dilatava nello spazio, con l’ambizione di trasfigurarlo. Non solo: l’arte con lui diventa esperienza di una proiezione di sé in territori nuovi, di una virtualità, per così dire, molto reale. Dove anche un artista costretto su una sedia a rotelle può vivere la dimensione dell’agilità, come fosse il più fantastico degli acrobati. Reduce dall’operazione, del resto, aveva preso tutti in contropiede con questa sua reazione: «Tout est neuf, tout est frais comme si le monde venait de naître».