Mentre nel Pd apparentemente regge la “pax lettiana”, anche grazie all’imminente tornata di elezioni comunali, sotto la cenere del centrosinistra cova un conflitto esplosivo. Il nodo è il che fare in vista delle prossime politiche che si terranno- vista anche la spinosa questione della pensione dei parlamentari- non prima del prossimo autunno. O addirittura nella primavera 2023.

Una parte del Pd infatti (non solo i vedovi di Renzi) ritiene che l’esperienza Draghi non sia una parentesi, che questo governo sia destinato a scomporre e ricomporre il quadro politico con gli europeisti da una parte e i nazionalisti dall’altra e che la stessa Lega sia destinata o a spezzarsi o a un cambio al comando, con la vittoria dei draghiani come Giorgetti.

In questo quadro, il compito del Pd sarebbe quello di «partito più draghiano di tutti», come l’ha definito Enrico Letta, destinato dopo il voto a sostenere più o meno lo stesso governo di oggi, con una maggioranza simile. Verso questo esito convergono varie ragioni, non ultima l’uscita di Angela Merkel dalla scena politica, il destino incerto di Macron, e dunque l’indispensabilità di Draghi al timone dell’Italia e dell’Ue. A questo si aggiunge il timore che il centrodestra a trazione Meloni-Salvini possa vincere le elezioni, e riportare l’Italia ai margini dell’Europa.

Accanto a questi ragionamenti- non del tutto privi di fondamento- si unisce il sogno di chi vede in Draghi una sorta di erede politico di Ciampi e Prodi, un leader naturale del centrosinistra, o comunque del fronte anti-sovranista.

E tuttavia, oggi più che in passato, l’idea che il centrosinistra si affidi a un “papa straniero”, a un tecnico del tutto estraneo alla sua storia, appare pericolosa, e a ssai poco in grado di intercettare e dar voce a una crisi sociale che è ancor più grave di quella del 2012-2013. Tra i dem invece, come per un riflesso pavloviano, si torna a parlare in modo ossessivo di “agenda Draghi”, esattamente come allora si parlava di “agenda Monti”.

Cosa significano queste espressioni? Nel 2012 nell’agenda c’erano i tagli al welfare per fronteggiare la speculazione finanziaria. Oggi l’agenda è come spendere i soldi del Recovery. Ma il tema di fondo resta lo stesso: chi ci guadagna e chi ci perde. E abbiamo visto com’è andata in questi anni: le diseguaglianze sono cresciute, e così lo sfruttamento nel mondo dei lavoro, l’ascensore sociale è rimasto fermo. E i populisti hanno preso milioni di voti, a partire dal boom del M5S che nel 2013 impedì a Bersani di vincere.

Per questo stavolta è necessario che la sinistra non si sterilizzi nell’ombra dell’ennesimo tecnocrate, che batta un colpo, con le sue proposte, un’idea di Paese. Nel Pd qualcuno, di tradizione ex Pci, ha provato a sollevare questa obiezione, da Goffredo Bettini a Gianni Cuperlo: «Quella di Draghi non può essere la nostra agenda».

E Letta? Nel suo discorso di insediamento a marzo sembrava aver «imparato» che senza una proposta sociale anche radicale il Pd non si sarebbe mai rialzato. Poi non si è più sentito. Tanto che lo stesso Prodi lo ha dovuto rimproverare: «Il programma del Pd è un po’ troppo ristretto, non bastano i diritti». E tuttavia proprio Prodi, nei giorni scorsi a Bologna, è stato protagonista di un incontro che nel nome di Beniamino Andreatta ha rinforzato il legame tra Letta e Draghi, e la suggestione che l’ex numero uno della Bce diventi la guida dei progressisti.

Ma quel profilo liberale, con venature progressiste, probabilmente era funzionale negli anni Novanta quando, in piena sbornia blairiana, l’obiettivo era portare al governo gli eredi del Pci depurati da qualsiasi scoria marxista. Oggi la piattaforma dell’Ulivo non basta più perché la società è assai più malata dopo due decenni di liberismo senza freni.

Se siamo arrivati fin qui è perché, per una serie lunghissima di errori negli ultimi tre decenni, all’Italia oggi mancano sia una Spd che una Linke: sia una sinistra socialista che una radicale. E manca pure una reale forza ambientalista. Tutti ingredienti necessari per costruire la possibilità di vincere le prossime elezioni spostando il baricentro politico a sinistra come è successo in Norvegia e potrebbe accadere a fine mese in Germania.

In Italia invece il rischio è che le comunali- per manifesta inferiorità dei candidati delle destre- vadano bene per il centrosinistra. E che questo risultato freni qualsiasi spinta a innovare.

Ma se non si scioglie questo nodo- cioè se considerare Draghi una parentesi o un investimento sul futuro – il Pd è destinato a galleggiare ancora, senza sciogliere i tanti nodi di merito che ha accumulato in questi 14 anni di vita, passando da un segretario all’altro senza mai scioglierne uno.

A partire da quelli più delicati, la riforma del lavoro (diritti, ammortizzatori, reddito di cittadinanza) e quella del fisco. Finché c’è stato Renzi su questi temi il Pd sembrava Forza Italia e gli elettori di sinistra l’hanno giustamente punito. Con Zingaretti c’è stata l’illusione di una svolta, che non è decollata. Ora questo nodo non può più essere eluso.