«La politica monetaria non può riempire i gasdotti, velocizzare le file dei container nei porti o formare nuovi autisti per guidare gli autotreni». Sono parole della presidente della Bce Christine Lagarde, al Parlamento europeo lo scorso 14 febbraio. Vale a dire che he la cosiddetta «trasmissione della politica monetaria» va presa sul serio ma bisogna anche comprenderne i limiti. Una banale constatazione, apparentemente. Ma non è proprio così. In essa si può leggere l’ammissione che la politica monetaria, compresa quella ultra-espansiva, da sola non è in grado di orientare il corso dell’economia. Retrospettivamente, anche la sconfessione – forse involontaria, forse no – delle scelte compiute dai suoi predecessori.

Non è automatico che alzando i tassi di interesse l’inflazione cali, così come il suo contrario. Se non ci fosse stata la pandemia probabilmente avremmo convissuto a lungo con tassi a zero e stagnazione/deflazione. Perché non è dai tassi che dipendono gli investimenti privati, bensì dalla domanda attesa, come ammoniva il vecchio Keynes. E quando gli investimenti privati languono tocca allo Stato fare la sua parte. Se dopo la Grande recessione si fosse tenuto conto di questa regola, nella pandemia ci saremmo entrati in maniera molto diversa. Si scelse invece il binomio politica monetaria espansiva/austerità, con effetti depressivi sull’economia e in alcuni casi devastanti sulla società. Sembra di parlare di un’altra era, ma i memorandum della Troika sono roba di dieci anni fa. E nessuno ha pagato per i costi sociali di quelle scelte scellerate.

Intanto, il dibattito a Francoforte è partito. I falchi sono tornati all’attacco, la stretta sulla politica monetaria sembrerebbe ormai vicina. Nel mirino ci sono i tassi di interesse ed i programmi di acquisto di titoli di Stato sul mercato secondario. Attualmente, il tasso sul rifinanziamento delle banche è allo 0,00% (quello sul rifinanziamento degli istituti in difficoltà allo 0,25%) e quello sui depositi a -0,50 (le banche pagano per tenere i soldi sul conto corrente della banca centrale).

Perché i tassi sono importanti? L’idea è che la banca centrale, fissando i suoi tassi di riferimento, condizioni il tasso interbancario (tasso al quale le banche si scambiano riserve di liquidità), che, a sua volta, condiziona i tassi con cui fanno i conti giornalmente famiglie e imprese. Tassi bassi uguale più credito e più investimenti privati e, di conseguenza, più inflazione. Peccato, però, che la tendenza rialzista dei prezzi non abbia niente a che vedere con l’aumento degli investimenti, né con la crescita di salari, stipendi e pensioni.

Il «rimbalzo» dell’economia sta portando con sé uno squilibrio tra domanda e offerta dei materiali di base della produzione e questo crea dei «colli di bottiglia» nell’approvvigionamento degli stessi. L’offerta di questi beni, in sostanza, non regge i ritmi della ripartenza. A questo bisogna aggiungere poi le tensioni geopolitiche che vedono protagonista la Russia e la speculazione finanziaria sui beni energetici e sulle «quote» di CO2, quelle di cui le imprese hanno bisogno per inquinare di più.

Questi problemi si possono risolvere manovrando i tassi d’interesse? La risposta, come abbiamo visto, l’ha data il presidente della Bce: la politica monetaria non riempie i gasdotti. Un aumento del tasso obiettivo della Bce unito alla chiusura dei programmi di acquisto (Qe, Pepp), nondimeno, potrebbe avere ripercussioni pesanti sui rendimenti dei titoli di Stato e sui cosiddetti spread. Un grosso guaio per Paesi come l’Italia (attualmente il 35% del nostro debito è in mano alla banca centrale).

Tornerebbe la tiritera sulla sostenibilità del debito, sulla necessità di fare politiche di risanamento contenendo la spesa pubblica, sul rispetto dei vincoli di bilancio previsti dai Trattati. Un salto indietro di dieci anni. E’ l’obiettivo dei falchi tedeschi e dei loro alleati? Non è da escludere, visto anche il dibattito sulla riforma del Patto di stabilità. Peraltro, sono gli stessi che invocano misure restrittive agitando lo spettro della spirale prezzi-salari. Menomale che c’è Lagarde: «Al momento non esiste una pericolosa spirale salari-prezzi nell’area dell’euro». Vedremo se reggerà alla riunione del Consiglio direttivo del prossimo 10 marzo.