In controluce, dietro il discorso improntato a fiducia e fierezza di sé che Sergio Mattarella ha rivolto ieri agli italiani, traspare una preoccupazione forse anche più profonda di quelle che il capo dello Stato nutriva nei giorni peggiori del contagio. Timori che non attengono più alla capacità di affrontare con lo spirito giusto il virus ma a quella di mantenere quello spirito di fronte alla crisi economica e sociale. Non si tratta più solo di esortare le forze politiche di maggioranza e d’opposizione al dialogo in nome di una «unità morale» ma di segnalare il rischio enorme che la malattia, non solo in Parlamento, «venga brandita dagli uni contro gli altri».

MATTARELLA, POLITICO di lungo corso e vasta esperienza, fiuta l’aria. Sente montare umori che negano la gravità della crisi, revocano in dubbio persino la sua esistenza, diffondono sospetti sui dati. Si preparano a trovare colpevoli per un disastro sanitario che metterà a durissima prova la tenuta sociale del Paese ed è facile prevedere che, in una temperie simile, la tentazione di cavalcare la tigre del disagio e della sfiducia sarebbe irresistibile. Con una crisi che già martella le fasce più povere ma coinvolgerà pesantemente anche il ceto medio già impoverito e quello medio alto, questi elementi comporrebbero un cocktail micidiale.

NON C’ERA UN OBIETTIVO preciso e specifico nel monito appena velato del presidente. Prendeva piuttosto di mira un clima generale, nel quale gli interessi particolari sia politici che economici minacciano oggi di prevalere. La partita della ricostruzione, per come si sta delineando, minaccia di essere senza esclusione di colpi e le divisioni nel governo sono più profonde di quanto non appaia. Non a caso il presidente, che all’inizio della crisi aveva adoperato toni severi con un’Unione europea in quel momento latitante, ha chiuso il suo discorso, il più intenso e sentito dall’inizio della crisi, con un riferimento all’Europa che «manifesta di aver trovato l’autentico spirito della sua integrazione». Perché la partita europea è ancora un’incognita pericolosa, a Bruxelles ma anche a Roma.

Non è ancora detto come finirà il braccio di ferro con le resistenze che ancora permangono nella Ue, e non a caso, pur nel riconoscimento pieno della svolta europea, il presidente Mattarella ha voluto ricordare anche ai «più forti» e ai «meno colpiti dal virus» che senza l’Unione non avrebbero futuro. Ma neppure le divisioni all’interno dell’Italia sono superate. L’affondo violentissimo del neopresidente di Confindustria Carlo Bonomi, tipo che al fioretto preferisce la mazza ferrata e non esita a definire questa politica, cioè quella del governo, più dannosa del Covid, mira in parte a spingere il governo verso la richiesta del prestito Mes. Bonomi non è solo. Il commissario europeo Paolo Gentiloni concorda: «Quella di Confindustria è una richiesta ragionevole». Anche il segretario della Cgil Murizio Landini è favorevole a «utilizzare tutte le risorse dell’Europa», purché il prestito non serva a cancellare l’Irap come vorrebbe Bonomi. Lo schieramento a favore del Pd è noto ma il no dei 5Stelle, nonostante qualche crepa, permane e dopo il 19 giugno il guaio potrebbe rivelarsi serio.

IL MES PERÒ È SOLO una parte delle richieste degli industriali, che mirano a condizionare pesantemente l’intera politica economica anti-crisi a loro vantaggio. Il Pd replica piccato, ma più dai toni inurbani e dalle critiche al governo che dal merito del diktat di Confindustria. Il capogruppo alla camera Graziano Delrio sbotta: «Vorrei che Bonomi ogni tanto parlasse di quanto l’evasione fiscale sia un cancro». Il vicesegretario del partito Andrea Orlando se la prende col «paragone rozzo» fra politica e virus. Solo il leader di LeU Nicola Fratoianni prende di mira il cuore dell’offensiva di Bonomi: «Le sue sono balle qualunquiste. Forse nella maggioranza è ora di capire che è un errore dare risorse a chi non ne ha bisogno».

Ma la sfida è di portata anche più generale. La linea di Confindustria, oggi, non prevede nessun «nuovo inizio» ,come lo ha definito Mattarella, né un diverso modello di sviluppo. Tutt’al più un ritorno al passato.