La tempesta scoppiata durante la cerimonia di premiazione del César ieri sera fuori e dentro la sala Pleyal era già cominciata qualche settimana fa all’annuncio delle dodici candidature per J’accuse (L’ufficiale e la spia in Italia) di Roman Polanski, toccando toni così aspri da portare l’intero gruppo organizzativo del premio, a cominciare dal «reggente» Alain Terzian alle dimissioni – anche se «l’affaire» Polanski sembrava più un pretesto per dare corso a esigenze diverse nel sistema cinematografico d’oltralpe.

LA RAGIONE è sempre la stessa, l’accusa di stupro più di quarant’anni fa contro Samantha Geimer – a cui se ne sono aggiunte nel frattempo delle altre – un po’ dimenticata negli anni e rilanciata con decisione dall’inizio del movimento #MeToo, che ha fatto dell’ottantaseienne regista uno dei simboli della propria battaglia. Nel corso dei giorni le posizioni si sono inasprite, e lo stesso Polanski ha deciso di non presentarsi alla cerimonia così come l’intera equipe, compresi i due protagonisti, Louis Garrel e Jean Dujardin.

Alla vigilia della serata il quotidiano «Liberation» è uscito con una prima pagina su cui contrapponeva Polanski e Adele Haenel – l’attrice protagonista di Ritratto di una giovane in fiamme di Celine Sciamma divenuta un simbolo nel #MeToo francese specie dopo la denuncia per violenza sessuale contro Christophe Ruggia, il regista con cui ha lavorato da ragazzina – col titolo: «Il fossato». Visto il clima non sembrava una buona idea, difatti sui social e in rete le polemiche si sono moltiplicate, così come è apparso poco tattico l’intervento del ministro della cultura, Franck Riester, che invece di smorzare i toni aveva a sua volta rilanciato affermando che un possibile premio a Polanski «sarebbe stato un pessimo segnale nella battaglia contro il sessismo e la violenza sessuale».

HAENEL – che in un’intervista al New York Times aveva detto che «premiare Polanski significherebbe sputare in faccia a tutte le vittime» – ieri all’annuncio del premio per la migliore regia al regista di Rosemary’s Baby è stata la prima a lasciare la sala al grido «Vergogna» – seguita tra gli altri dalla presentatrice della serata Florence Foresti, che in apertura aveva ironicamente annunciato la presenza in sala di «predatori, produttori, gentiluomini con il braccialetto elettronico»…

L’ufficiale e la spia rispetto alle premesse non ha vinto granché: la regia, poi i costumi e la sceneggiatura non originale mentre a trionfare è stato Les Misérables di Ladj Ly, che la Francia aveva anche candidato all’Oscar per il miglior film internazionale, una storia nella periferia parigina raccontata riadattando il genere – poliziesco, commedia e rivolta.
Al di là dei premi – il Cèsar è il riconoscimento dell’industria francese e non sorprende che film belli e importanti come Grazie a Dio di Ozon o Ritratto di una giovane in fiamme di Sciamma siano stati pressoché ignorati – a favore di quei titoli che hanno avuto magari un migliore risultato al botteghino – come Les Misérables e quello di Polanski. La domanda però è: si poteva evitare tutto questo? Gli scontri davanti alla sala Pleyal tra polizia e gruppi femministi erano ugualmente prevedibili, visto quanto è successo all’uscita nelle sale francesi del film, e il resto? Era insomma meglio non candidare Polanski (per quello che non è il suo film migliore) ascoltando «le richieste» espresse dalla realtà del momento?

IL DISCORSO è molto scivoloso perché se si risponde di sì il rischio che si può si correre in futuro è l’esercizio della censura – seppure con le migliori intenzioni. Su 4300 votanti si è arrivati a questo risultato che non sembra nemmeno il vero problema, prima ancora infatti c’è che, secondo questa ipotesi, Polanski e L’ufficiale e la spia non dovevano neppure entrarci nei César. Ma siamo certi che ignorarli era il giusto modo per rispondere a questioni cruciali come l’eguaglianza di genere sul lavoro, il ricatto sessuale, e nel caso specifico alla necessità di un rinnovamento in uno strumento, come i César, centrale nell’industria cinematografica francese?

Ogni battaglia ha bisogno di simboli, e Polanski lo è, in modo forte e non da adesso – intorno a lui c’è sempre stata un’aura di perverso enigma, persino dopo il tragico assassinio di sua moglie, Sharon Tate, e dei loro amici. Quando qualche anno fa la Cinématheque francese organizzò una retrospettiva su Polanski, scoppiò il caos al punto che l’incontro col regista venne «blindato». Poco dopo però l’omaggio a Jean Claude Brisseau – che aveva scontato la condanna di violenza su due attrici – venne assurdamente cancellato. Cosa regola allora le decisioni, il principio o la legge del mercato, della fama, della «vendibilità» di un nome?

Sappiamo che il piano simbolico è fondamentale ma sappiamo anche che spostare su un film una battaglia imprescindibile può produrre lo stesso effetto della «polvere sotto al tappeto». È importante senza dubbio leggere nelle dichiarazioni tra chi manifestava fuori della Pleyal, ragazze giovani che studiano o lavorano nello spettacolo, che il #MeToo ha dato una sicurezza mai conosciuta prima nel prendere la parola contro molestie o altre forme di ricatto sui luoghi di lavoro, set o altro.

LA BATTAGLIA deve continuare ma di nuovo: se il film di Polanski non fosse stato candidato ciò avrebbe significato che tutto andava bene, che era tutto risolto? C’è anche un po’ di ipocrisia in questo, come spesso nella ricerca di un colpevole «testimonial». Il processo per un cambiamento nell’industria del cinema come in altri settori è ancora lungo, e con importanti priorità, di Polanski e del suo film possiamo discutere ma eliminarli appare un po’ un «palliativo», nonché il preambolo di una deriva pericolosa: che sia ritenuto preferibile che Polanski smetta di fare il cineasta.