Non c’era bisogno della sfera di cristallo per «prevedere» cosa poteva succedere nel mondo sempre più fragile della cultura e dei suoi affamati incarichi. E non è di alcuna consolazione poter affermare «l’avevo detto io», perché il fatto che il ministro Franceschini fosse inadeguato per andare a gestire i beni e le attività culturali, era evidentemente sotto gli occhi di tutti. Così il giorno della riunione dei responsabili per Pompei che ogni giorno crolla, il ministro ha preferito andare a vedere la meravigliosa città-fortezza di Palmanova, capolavoro cinquecentesco che sta ancora ben in piedi. Lì si è pure ammalato, e l’altro ieri, appena tornato al ministero, si è trovato il problema della ratifica della direzione del Teatro di Roma. Dove Ninni Cutaia è stato nominato dai soci (comune e regione e, finché c’è, provincia), presentato al pubblico dal consiglio d’amministrazione che l’ha eletto, e ha pure cominciato a lavorare. Forte della fiducia del ministro precedente Bray, che avrebbe ratificato quella nomina proprio il giorno che il governo Letta è caduto. Ma soprattutto sostenuto dal fatto che era l’unico candidato che unanimemente veniva riconosciuto adatto e capace di compiere la sfida impossibile: rilanciare un teatro sfiorito negli anni, sempre meno «pubblico» quanto piuttosto selettivo col suo pubblico, dove i giovani sono in netta minoranza, e con gli artisti, le cui ultime generazioni sono state non valorizzate, ma neanche messe alla prova, se non dentro gabbie e recinti dovuti più che altro ai ritardi dei lavori di restauro del teatro India. Cutaia, per l’esperienza e la storia personale, prima all’Eti, poi al napoletano Mercadante tenuto a battesimo come stabile, attualmente al ministero dopo lo scioglimento inspiegato dell’Ente teatrale italiano, era davvero l’unico che poteva tentare il miracolo: e non essendo né attore né regista, nemmeno interessato a occupare la scena lui stesso.

Ebbene, un alto funzionario dei Beni Culturali (uno di quella cerchia di cui il premier Renzi continua a rivendicare il ridimensionamento) si è dichiarato contrario alla ratifica della nomina, perché Cutaia ha un ruolo importante al ministero, e potrebbe tornarvi dopo il lavoro svolto a Roma, e quindi non è una figura «neutrale» rispetto a un teatro finanziato dallo stato. Perfino se si volesse licenziare, il malcapitato dovrebbe attendere due anni per aspirare a un teatro: così prescrive la legge Severino. A meno di non ricorrere alla possibilità, in una situazione particolarmente delicata e di necessità, e davanti alla chiara fama dell’interessato, che l’ente locale e quello centrale non firmino un protocollo d’intesa. Dev’essere sembrato troppo tutto questo al convalescente Franceschini, che ha chiuso l’argomento con un definitivo «non si può fare», comunicato dal gabinetto del ministro a quello del competente sindaco Marino.

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Cosa è che si può fare invece? Chiudere il teatro, tanto pare non stare a cuore a nessuno. E nessuno, ma proprio nessuno, degli amministratori pubblici che se ne dovrebbero occupare, né capisce alcunché, né conosce il minimo suo meccanismo di funzionamento. La «Cultura» dai tempi di Berlusconi è un optional, da regalare come premio di consolazione a qualche politico arrivato a fine corsa. Ma non passa per la testa del ministro Franceschini che, nel momento in cui dà quella risposta, potrebbe anche dimettersi, perché non ha capito nulla delle necessità di un pezzo rilevante dei territori che dovrebbe amministrare? No, il rispetto tacito della burocrazia tanto vituperata dal suo piccolo premier, vale di più. E non vengono in mente le dimissioni neanche all’intero cda dell’Argentina, che quel nome ha votato, l’ha fatto lavorare per suo conto per due mesi, e poi si accorge di esser «fuori legge»? Nient’affatto, il cda fa sapere che è già pronto a una serie di nuove ipotesi di nomina. Ma se son quelle che da ieri hanno cominciato a circolare sui giornali, non c’è da stare allegri: curatori di piccole manifestazioni locali, o anche di grandi kermesse nazionali, o anche il direttore della fondazione privata Romaeuropa: tutti hanno lavorato grazie a finanziamenti garantiti dallo stato, e senza dover rendere granché conto a chi li finanziava. Ma i tempi sono cambiati, soldi non ce ne son più, e chi inventa spettacolo sa di dover far conto su un pubblico drammaticamente diminuito (tutti i teatri romani son lì a dimostrarlo) e nello stesso tempo con idee e progetti artistici così forti da attrarre danaro e interesse. Almeno se si vuol stare alle regole anche etiche che un teatro pubblico impone. Come succede in (poche) altre città italiane.

Il teatro continua, quasi suo malgrado, ad essere specchio e rappresentazione (più o meno deformati) della società che lo esprime. Un valore costitutivo, ma anche una maledizione, come nel caso attuale del Teatro di Roma. Un palcoscenico privilegiato dove si possono riconoscere in trasparenza illusioni e smentite del governo Renzi, l’impossibilità di ottenere minimi risultati se non si va in fondo alle proprie affermazioni, se non si portano a compimento reale i proclami di cui si riempiono tv e conferenze stampa.

La situazione teatrale di Roma continua a esser dominata dai pluriformi salotti (quelli che hanno stroncato il film di Sorrentino perché in quei trenini inconcludenti troppo facilmente si riconoscevano), e nello stesso tempo aspira e conta di rientrare tra i «teatri nazionali» (sempre che la riforma progettata e presentata da Bray possa ancora marciare). Ma nessuno si immagina davvero cosa vuol dire avere capacità e autorevolezza per trattare almeno alla pari con gli altri teatri nazionali, d’Italia e di fuori. Così lo spettacolo peggiore è quello di chi elucubra motivazioni favorevoli al proprio candidato (la rete ne è piena, e impietosa).

Così a fianco ai nomi sui giornali, escono fuori perfino ripescaggi dal passato del teatro, come Giovanna Marinelli che ne fu direttore discusso qualche anno fa. Già, si può continuare ad estenuarsi col gratta e vinci, ma quando avrà inizio lo spettacolo vero, con il sindaco Marino, il governatore Zingaretti e soci che riprendono in mano con forza la questione, e difendono una candidatura? Magari proprio quella di Cutaia: sia per por fine a questa farsaccia degli equivoci, sia per poter cominciare a verificare il tessuto teatrale per Roma di cui ha intrapreso il disegno.