Attorno alla metà degli Novanta, sotto il fischio dei feedback e la violenza delle rullate con cui le band grunge avevano occupato le radio nord americane, iniziò a trapelare un suono nuovo. Veniva da luoghi dell’intimità domestica, spesso da camerette di provincia, dove una generazione di musicisti autodidatti cercava soluzioni artistiche in controtendenza al proprio presente: guardavano con curiosità agli anni Sessanta, non per recuperarne l’intimismo da songwriter, ma un patrimonio dismesso di estetica hippie e stranezze bucoliche. Cantavano di ortaggi e apparecchi volanti, e agli Smashing Pumpkins preferivano Pharoah Sanders e Roky Erikson. Era la scena lo-fi americana, che sbocciava al chiuso di stanze d’affitto nelle cittadine del sud-est, proponendo un nuovo artigianato radicale. Da una di esse fuoriuscì a un certo momento Jeff Mangum, fino ad allora autore di un unico disco intitolato On Avery Island, quando nel 1998 si decise a fondare una band per portare in tour il suo progetto, i Neutral Milk Hotel. Mangum, allora ventiseienne, non era del tutto estraneo alla vita on the road, frequentava la scena di Athens, Georgia, e di conseguenza non faticò ad assoldare i suoi musicisti, molti dei quali erano già affiliati all’Elephant 6, un collettivo di sperimentazione psichedelica a basso costo e senza freni che lo stesso Mangum aveva fondato in Louisiana. Al contrario, l’aspetto più inusuale nella genesi del suo secondo disco, In the Aeroplane over the Sea, è che l’autore lo abbia composto sulla scorta di una lettura compulsiva; lettura che man mano assurse a onirica comunicazione con un’altra cameretta, situata al di là dell’oceano, sul retro di una fabbrica di surrogati alimentari nel centro di Amsterdam: la casa sul retro da dove Anne Frank aveva raccontato per filo e per segno la sua latitanza durante la Seconda Guerra Mondiale.

Il libro di Massimo Palma «Olanda, 1945. Anne Frank e i Neutral Milk Hotel» (nottetempo)

IL NESSO
A venticinque anni dalla pubblicazione di In the Aeroplane over the Sea, il critico Massimo Palma ha scritto un saggio, Olanda, 1945 (nottetempo), immaginando un punto ideale in cui i fili tra la Georgia del 1998 e la Amsterdam occupata di cinquanta anni prima possano connettersi e tornare a vibrare; la sua scrittura oscilla tra critica letteraria e musicale, in alcuni casi si spinge ben oltre. Un’operazione esegetica su questo disco non era ancora stata tentata, forse perché neanche lo stesso Mangum ha davvero mai chiarito l’influsso che ebbe su di lui la lettura di Anne Frank. Forse inconsapevolmente, Palma risponde a un quesito mai posto e filologicamente inaffrontabile, e per farlo si affida, come il musicista statunitense, all’ispirazione poetica, al flusso delle associazioni. Si sintonizza con il testo di partenza e lo rimugina, lo accresce, provando a ricomporre un nesso tra epoche e continenti. A guardarli sul palco la sfasatura temporale è già evidente. Nel 1998 i Neutral Milk Hotel si presentano in una formazione a quattro, ma fornita degli optional più improbabili: tromba, fisarmonica, zanzitofono, sega musicale. Rispetto ai compagni di etichetta come Olivia Tremor Control o Apples in Stereo, i soci di Mangum hanno qualcosa di giullaresco. Si presentano vestiti da garzoni, sono hipster si sarebbe detto in seguito, non è chiaro se usciti da uno shtetl polacco o da un villaggio ecologista. La loro musica sembra prodotta in una stanza angusta a seguito di una seduta spiritica. Chitarre acustiche portate a saturazione esplodono improvvisamente in un pandemonio di fiati e grancasse sferraglianti. Se in questo disco c’è un elemento che ha fatto scuola è la produzione, solo apparentemente povera, che unisce melodie acid folk a cuore aperto, distorsioni twangy anni Sessanta e anacronistico chiasso da fanfara. Sono però le evocazioni testuali di Mangum, l’elemento su cui Palma si sofferma maggiormente, uno stile sovrabbondante che punta «sugli altissimi della sua intuizione» e che all’ennesimo ascolto diventa «insostenibile, inascoltabile». Ogni fan dei NMH, ripensando a quando ha intonato l’intro di King of Carrot Flowers Part II, deve provare uno strano pudore: «I love you Jesus Christ/Jesus Christ I love you, Yes, I do». Dopo pochi minuti in cui ha descritto situazioni corporali dall’effetto equivoco, Mangum ha già fatto breccia nell’ascoltatore, che si ritrova ad affermare il proprio amore per Gesù Cristo senza una punta di sarcasmo.
Le immagini si affastellano vivide ma hanno al contempo qualcosa di claustrofobico, compongono una miscela che ha pochi pari nella storia dell’indie elettrico.

IL FILO RIAVVOLTO
Inizia a riavvolgersi il filo, si risale all’infanzia di Mangum in una comunità battista, ai rituali comunitari ma anche a un latente desiderio di evasione, a un’intensa attività onirica. Segnali da una sfera recondita, come quella descritta nella successiva Two Headed Boy, «un lungo momento di passione estrema e misteriosa» come lo definì all’epoca la rivista Punture.
Un dialogo a due voci con una parte di sé impossibile, mostruosa, espulsa, ma che sussurra continuamente, e di cui si prova a captare la vibrazione: si può dire che l’imagismo di Mangum sia una via «mistica» ad Anne Frank. Nel suo libro Massimo Palma affronta questo tortuoso percorso testuale inaugurando un dialogo tra il Diario, l’Aeroplano e un più vasto patrimonio letterario in cui riecheggia il trauma della Shoah. Affidandosi alla frequenza delle coincidenze che legano i NMH a Primo Levi o a Philip Roth, arriva a svelare una serie di temi che del Diario sono proprio la parte meno addomesticata. È dal 1952, data di pubblicazione negli Usa di Diary of a Young Girl, che ci si chiede se versioni e riduzioni, spesso edulcorate, della testimonianza di Anne Frank rendano giustizia della sua vicenda umana e letteraria.
Se la musica underground contasse qualcosa, l’Aeroplano avrebbe segnato la svolta elettrica del dibattito sulla letteratura della Shoah. Anne Frank è infatti la scrittrice che in due anni di cattività racconta il mutare del suo corpo, e la poesia creaturale di Mangum, con il suo elaborato insistere sulla sfera fisica, sembra capace di riportare in primo piano una autrice non più bambina, ma adolescente scalpitante; Palma, dal canto suo, si spinge oltre, analizza King of Carrot Flowers e riconosce un’eco di quella scrittura delle scorie che caratterizza tanto gli scenari kafkiani quanto quelli olandesi. È un volo pindarico, degno dell’oggetto dei suoi studi. Si può dire che tra i testi di Mangum e la riscrittura da parte del critico italiano vi sia la comune consapevolezza di un dialogo che, al di là di ogni attinenza filologica, non può che essere con un fantasma, con ciò che Davide Fadda in un recente saggio ha definito «la presenza di un’assenza».
Spesso si sottovaluta come ogni lettore del Diario abbia a che fare, fin dalla prima pagina, con un finale già noto; che ci si limiti a una retorica sentimentale, o al contrario si opti per una critica asettica e scrupolosa, è impossibile non farci caso. Forse tentare di capire «cos’ha veramente detto» Anne Frank non serve, poiché «quel che ha detto è ancora nella stanza».
Dalla fine degli anni Novanta il genere lo-fi avrebbe assunto connotati emotivi precisi, esprimendo la nostalgia incolmabile per un altrove che acusticamente si manifesta attraverso interferenze, messaggi criptici, silenzi disturbati.
Questo sottofondo è ancora udibile nei dischi dei Microphones, di Songs: Ohia. Dopo il tour di Aeroplane, Jeff Mangum si ritirò improvvisamente dalle scene e diede notizia di sé con sporadiche uscite sotto altri moniker. Anche in questo Palma individua una beffarda similitudine tra i Neutral Milk Hotel e la loro fonte d’ispirazione: sparire, per continuare a esistere.