Cresciuta all’ombra della New York pre-Giuliani e del Cbgb, Mary Harron è andata configurandosi nel corso della sua carriera come una esploratrice dell’immaginario statunitense. Passando per la Valerie Solanas di Ho sparato ad Andy Warhol, Bettie Page e dando corpo all’American Psycho di Bret Easton Ellis, Harron, nei suoi film per il cinema ha attivato una conversazione con la mitologia e l’immaginario Usa che ha dato frutti interessanti. Charlie Says, ultimo tassello in ordine di tempo della sua personale cronaca della storia culturale e sociale degli Stati Uniti, filtrata attraverso un’ottica femminista e femminile, ci permette di ritrovare una regista in forma splendida. Il film, un adattamento del libro di Karlene Faith sulla parabola carceraria di Leslie Van Houten, giovanissima discepola di Charlie Manson, evita qualsiasi tentazione sensazionalistica per concentrarsi sulla vicenda di un’adolescente la cui vita paradossalmente è iniziata nel 1972 all’indomani della decisione della corte suprema californiana di abolire la pena di morte. Van Houten, adolescente con una storia familiare disastrata alle spalle, è fra le primissime ad unirsi a Manson insieme a Catherine Share e al musicista Bobby Beausoleil che ha incrociato per breve tempo anche la strada di Kenneth Anger e che è stato condannato per l’omicidio di Gary Hinman, anche lui legato a Manson. Non presente alla strage in cui perse la vita Sharon Tate, che fu eseguita materialmente da Susan «Sexy Sadie» Atkins, Patricia «Katie» Krenwinkel e Tex Watson, Van Houten partecipò invece alla spedizione successiva alla quale si aggiunsero anche lo stesso Manson e Steve Grogan. Le vittime della follia omicida di Manson (che comunque si allontanò dal luogo della strage prima che questa fosse messa in atto) furono i coniugi Leno e Rosemary LaBianca. È accertato che fu ancora una volta Tex Watson a infliggere il maggiore numero di ferite ai due anziani coniugi anche se le varie inchieste hanno stabilito che fra le 47 ferite gravi da arma da taglio subite da Rosemary LaBianca ne figuravano molte inflitte post mortem. Tutto questo accadeva quando Leslie Van Houten era appena diciannovenne. Karlene Faith incontra la giovane nel 1972, quando ormai era in carcere dal 1969.

IL FILM di Mary Harron si concentra sul difficilissimo percorso di riscoperta della propria identità da parte di Van Houten in un processo nel quale memorie, residui dei discorsi di Manson, paura, calcolo ma anche desiderio di cambiare s’intrecciano senza soluzione di continuità.

La vastissima letteratura sul caso Manson che a partire da «Helter Skelter» del pubblico ministero Vincent Bugliosi e Curt Gentry non ha mai smesso di fiorire, non grava sul film di Harron che si attiene fedelmente al processo complesso di rinascita della protagonista dettagliato nel libro di Faith. In questo senso il film si associa al lungo lavoro pedagogico svolto in carcere da John Waters al fianco delle ex ragazze di Manson. Interrogato al Festival di Locarno in merito, Waters ha dichiarato: «Non ho alcuna ossessione nei confronti di Manson. Mi dispiace solo per le ragazze che hanno avuto la sfortuna di incrociare sulla loro strada un manipolatore e un pappone come Manson che ha rovinato loro la vita. È un’autentica tragedia pagare per tutta la vita un terribile errore che è costato la vita ad altre persone e che hai commesso perché sei stata plagiata da un criminale. È durissimo restare tutta la vita in carcere a riflettere su quello che hai fatto. Oggi ne parlo il meno possibile perché temo che possa danneggiare la sua possibilità di ottenere delle facilitazioni di regime carcerario».
Manson in questo senso viene presentato da Harron come un’aporia,echeggiando la dichiarazione di Quentin Tarantino: «Il caso Manson è un mistero: più lo si studia e si analizza e meno si comprende come sia potuto accadere». E se nel suo C’era una volta a… Hollywood il regista riscrive la storia del caso Tate, Mary Harron in Charlie Says tenta di comprendere come sia stato possibile che un uomo che aveva trascorso una grandissima parte dei suoi primi 32 anni fra riformatori e carcere prima di essere rilasciato per quello che si sarebbe rivelato il periodo più lungo della sua vita il 21 marzo del 1967 abbia potuto raccogliere intorno a sé un consenso così vasto (interessante a questo proposito il volume Chaos di Tom O’Neill e Dan Piepenbring che tenta di dimostrare come i movimenti di Manson fossero in realtà monitorati e seguiti con grande interesse dalla… Cia).

INTERPRETATO dal britannico Matt Smith (già Dr. Who), Manson nelle mani di Harron, che gli affida parole già rintracciabili nei suoi scritti, emerge correttamente come un misogino razzista, il prototipo degli attuali suprematisti bianchi (non a caso è tenuto in grande considerazione dalle frange naziste più esoteriche). E la sua egolalia risuona inquietantemente simile a quella dell’uomo che occupa al momento la Casa bianca. Van Houten è interpretata da Hannah Murrray (la Gilly de Il trono di spade) che riesce a conferire forza e convinzione a un personaggio complesso che oscilla spaventata fra arroganza, vulnerabilità e ingenuità adolescenziali. Merrit Wever (vista di recente in Benvenuti a Marwen di Robert Zemeckis) interpreta l’autrice del libro Karlene Faith con un attento lavoro di toni e sfumature. Charlie Says è un film non facile, dunque, ma coraggioso e necessario che restituisce la voce a chi ne è stata privata.